mercoledì 22 febbraio 2012

Liberate i nostri soldati!


Un centinaio di militanti della Giovane Italia stanno manifestando in questo momento sotto l’ambasciata indiana a Roma. ‘Liberate i nostri soldati’ è lo striscione con il quale i ragazzi stanno bloccando l’entrata dell’ambasciata al grido di ‘Non giocate a fa l’indiani…Liberati i marinai italiani.’

“Siamo scesi in piazza per chiedere l’immediato rimpatrio dei nostri militari ingiustamente detenuti. Questa vicenda conserva troppi lati oscuri e non possiamo accettare che uno Stato attraverso l’inganno e senza valide motivazioni, compia un atto di prevaricazione nei confronti di chi ogni giorno tiene alta la bandiera italiana nel mondo. Il Governo indiano con le sue scelte ha offeso la dignità della nostra Patria.” E’ quanto dichiarano in una nota Cesare Giardina, Presidente della Giovane Italia Roma, e Michelangelo Chinni, Coordinatore Giovane Italia Roma, che aggiungono: “Ma oggi siamo qui anche per chiedere un azione più incisiva al Governo Italiano, troppo timido e arrendevole nell’azione diplomatica per riportare a casa i nostri ragazzi, al quale consigliamo di preoccuparsi un po’ meno di piacere ai burocrati di Bruxelles e alle agenzie di rating, e di spendersi anima e corpo per difendere la dignità del popolo italiano.  Ci auguriamo che questa manifestazione sia solo l’inizio di una grande mobilitazione popolare per esprimere vicinanza alle famiglie di Massimiliano La Torre e Salvatore Girone, in attesa di festeggiare il loro ritorno a casa.”

lunedì 20 febbraio 2012

Quale primavera in Libia?


Libia, muore in carcere la “giornalista del Raìs” che durante la campagna d’aggressione patrocinata dall’ONU andò in televisione con la pistola per spronare i libici alla resistenza. Hala Misrati, questo il nome della giornalista, è morta in carcere, ma secondo alcune fonti sarebbe stata prima torturata fino ad arrivare a tagliarle la lingua. Forse, anche per questo, sembra avesse ad un certo momento aderito agli insorti. A mesi di distanza dalla “primavere araba” i “ragazzi della rivoluzione”, quelli del vento di cambiamento e della libertà, continuano a mietere le loro vittime.

La nota presentatrice libica pro-regime, Hala Misrati, sarebbe stata trovata morta in un carcere della capitale libica, uccisa dai membri di una delle cosidette brigate rivoluzionarie, riferisce un’emittente degli Emirati Arabi. Prima della caduta di Gheddafi la giornalista era apparsa in tv armata di pistola e poi, arrestata dai ribelli, era passata dalla loro parte.

UCCISA NEL GIORNO DELL’ANNIVERSARIO - Come riporta domenica il canale al-Arabiya, le notizie dell’uccisione della presentatrice dell’allora televisione di stato libica Jamahiriya, erano circolate nel Paese già nella giornata di sabato. Misrati sarebbe stata ammazzata il 17 febbraio, proprio in occasione del primo anniversario dell’avvio della liberazione della Libia dal regime di Gheddafi. Dalle autorità della capitale non è arrivata al momento nessuna presa di posizione ufficiale sulla morte della giornalista. Per il canale Algeria ISP si tratta invece solo di «voci prive di conferma».

STAR DELLA TV DEL RAÌS - Hala Misrati, un tempo tra le voci più forti della propaganda di Gheddafi, era apparsa in video nell’agosto scorso con una pistola in pugno e l’espressione eroica. In diretta tv aveva minacciato di usarla per difendere il regime dai «cani» di Bengasi, ovvero i ribelli alleati degli occidentali. «Ucciderò o morirò oggi con quest’arma», aveva detto Misrati davanti alle telecamere proprio mentre i ribelli stavano avanzando su Tripoli. «Non prenderete le nostre televisioni. Qui siamo tutti armati, siamo disposti a diventare dei martiri», aveva concluso. Catturata e arrestata dagli insorti la fervente seguace del Colonnello chiese scusa ai rivoluzionari del 17 febbraio, cambiò casacca e passò dalla loro parte. L’ultima volta di Hala Misrati in tv risale al 30 dicembre scorso. Era apparsa in video restando in silenzio, sventolando un foglio sui cui erano annotati solamente il giorno, il mese, l’anno. Riportava però visibili segni di percosse sul volto e secondo alcuni c’era il sospetto che alla donna fosse barbaricamente stata tagliata la lingua.

APPELLO AI RIVOLUZIONARI - In un discorso televisivo di qualche sera fa, in occasione del primo anniversario della rivolta, il premier del governo di transizione, Adbel Rahim al Kib, si è nuovamente appellato a tutti i rivoluzionari armati, perchè aderiscano al più presto all’esercito o prestino servizio presso il ministero dell’Interno del Paese: «Se non occupate voi le importanti cariche nella polizia e nell’esercito, queste resteranno libere per elementi che sono meno fedeli alla nazione». Fino ad oggi sono circa 5000 i rivoluzionari che si sono fatti avanti per prestare servizio in polizia. Altrettanti avrebbero deciso di arruolarsi nell’esercito.

Corriere.it

lunedì 13 febbraio 2012

Muore con il fuoco una monaca buddista di 18 anni


Ngaba, muore con il fuoco una monaca buddista di 18 anni
Tenzin Choedron proveniva dal monastero di Mamae Dechen Choekhorling: è la 23esima vittima di questa forma di protesta contro il dominio comunista. Il governo, invece di cercare il dialogo, continua a preferire il pugno di ferro contro la popolazione.

Dharamsala – Tenzin Choedron, una monaca buddista tibetana che si è data fuoco per protestare contro il dominio cinese in Tibet, è morta durante la corsa verso l’ospedale di Ngaba, nel Sichuan. A riferirlo sono oggi i media cinesi, che puntano di nuovo il dito contro “la cricca del Dalai Lama, colpevole di fomentare questi atti”. Dal febbraio del 2009, sono oramai 23 i religiosi che si sono dati fuoco per chiedere libertà religiosa e il ritorno del loro leader spirituale in patria.

Secondo quanto riferito ieri dal governo tibetano in esilio, la giovane 18enne - che proveniva dal monastero di Mamae Dechen Choekhorling - si è data fuoco ad un incrocio stradale pronunciando slogan contro il governo cinese. Le forze di sicurezza l’hanno immediatamente portata via e hanno chiuso il monastero: la monaca non è morta sul colpo, ma è stata portata via in luogo sconosciuto dagli agenti della polizia cinese.

Ngaba si conferma l’epicentro di questa forma di protesta: qui si sono verificate 14 auto-immolazioni, delle quali cinque dall’inizio di febbraio. Il Dalai Lama e tutte le altre personalità spirituali del buddismo hanno più volte chiesto ai loro fedeli di non compiere questi atti e di pensare sul lungo periodo, ma hanno ammesso che le privazioni a cui sono costretti i tibetani in Tibet sono terribili e aumentano di anno in anno.

La polizia, su ordine del governo centrale comunista, invece di cercare il dialogo e frenare le morti, continua a tenere sotto strettissimo controllo le regioni dove vivono i tibetani, bloccando le strade e impedendo i collegamenti anche telefonici. Il segretario regionale tibetano del Partito comunista cinese ha invitato i suoi funzionari alla “guerra contro i secessionisti del Dalai Lama”, minacciando i funzionari che non si adoperano di cacciarli.

Asianews.it

venerdì 10 febbraio 2012

Le radici di un'idea Comune: Il Laboratorio Culturale Aslan Intervista il partito di Governo Ungherese


E' per noi un enorme piacere poterci confrontare con voi, fratelli ungheresi. Le storie degli ultimi mesi hanno appassionato tutto il mondo, in particolare quei popoli e quelle nazioni libere che vedono nell'operato del Governo Orban un'azione interessante. I mass media stanno attaccando massicciamente la politica che punta nella direzione della riconquista della sovranità nazionale. Le contestazioni, in Ungheria come in Italia, sono state capeggiate da coloro che incitano alla libertà ma paradossalmente contestano il principio del potere popolare. Nonostante tutto, lo spirito di Budapest del 1956 sembra non essersi spento: se prima i nemici erano coloro che invadevano con i carri armati le città libere d'Europa, ora il potere sembra essere più infimo, le armi sono le agenzie di rating e i mandanti hanno volti sconosciuti e siedono dietro le scrivanie della finanza internazionale. Il "Fidesz", il partito di maggioranza magiaro, sta dimostrando coraggio, tentando di far uscire l'Ungheria dalla crisi con dignità e a testa alta.

I Telegiornali di tutto il mondo hanno gettato un'ombra sull'Ungheria, accusando il Fidesz ed il Governo Orban, di aver imposto una dittatura al popolo Magiaro. Come rispondete a queste accuse?

Il primo ministro ha affermato:  "Sulla questione dei diritti, la costituzione protegge tutti i punti della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Quindi dichiara l’inviolabilità della dignità umana, il diritto alla libertà, la sicurezza della persona e la protezione della proprietà privata."

Gli stessi media che vi accusano di estrema autorevolezza calcano molto la mano sulla questione della comunicazione. Siete stati accusati di voler imbavagliare il giornalismo attraverso leggi che censurano l'informazione. Cos'è successo esattamente?

Le nuove leggi sui media in Ungheria sono conformi a quelle dell’Unione Europea. Su queste critiche, Szalai ha dichiarato che l’obiettivo era più “Una prevenzione e non una punizione” e che i tribunali devono applicare i “Princìpi di gradualità, stessi trattamenti e penalità proporzionate” per i giornalisti.

Quali sono le azioni che state portando avanti per uscire dalla crisi?
Tra i risultati di questi 18 mesi, c'è il miglioramento del debito pubblico dell’Ungheria, un positivo bilancio fiscale e lo scioglimento dell’organizzazione paramilitare che minacciava le etnie di minoranza. Le riforme prevedono cambiamenti nel sistema governativo, legislativo, municipale, giudiziario e educativo, diverse saranno anche le tasse, le pensioni, ma anche i servizi sociali e l’assistenza sanitaria nazionale. “Abbiamo riorganizzato tutti i sistemi che prima alzavano il debito pubblico”. A partire da Giugno i cambiamenti attuati dal Fidesz saranno completati, e dopo ci sarà un periodo di calma, parola di Janos Lazar, capogruppo al parlamento.

In Italia, nei nostri concerti, cantiamo a squarciagola la canzone "Avanti ragazzi di Buda", brano che narra la rivolta del 1956. Che peso hanno questi eventi nella storia dell'Ungheria e nella vostra militanza politica?

La legge fondamentale dell’ungheria (25 aprile 2011) dice: "Siamo d’accordo con i membri del parlamento libero, che proclamò come prima decisione che la nostra libertà ebbe inizio durante la rivoluzione del 1956”.

Cosa pensate dell'attuale Unione Europea e quale è la vostra idea d'Europa?
"E’ nell’interesse dell’Ungheria che l’unione europea sia forte e unita e che la zona Euro esca dalla crisi al più presto possibile, afferma il ministro degli esteri Janos Martonyi." Il governo ungherese è pronto a dialogare con tutti su qualunque questione ma non accetta che nessuno metta in dubbio la nostra democrazia. Martonyi continua: "Chiediamo ai nostri vicini di abituarsi all’idea che non esiste un’identità individuale senza un’identità condivisa. Se capiranno questo, capiranno meglio l’identità Europea”.

La costituzione ungherese, attraverso una recente riforma approvata dal parlamento, sottolinea i principi saldi che guidano il popolo magiaro. Si parla di Dio e di Patria, come concetti imprescindibili a cui fare riferimento. Da cosa nasce la necessità di evidenziare questi argomenti?

Le leggi dell’Ungheria si basano sulla libertà dell’individuo e sul rafforzamento dei valori costituzionali e democratici della carta dei diritti dell’Unione Europea, afferma il presidente Pal Schmitt alla celebrazione della nuova costituzione, e riafferma che la famiglia, l’ordine pubblico, la casa, il lavoro e la sanità sono i valori principali.

Che importanza hanno, le radici e le tradizioni nella vostra visione del fare politica?
Il deputato Tibor Navracsis ha detto: "La nuova costituzione ha grande importanza sia pratica che simbolica.  Provvede a una fondazione per il nuovo spirito dell’Ungheria. Pensa al passato, presente e futuro della nazione e ai valori fondamentali del popolo ungherese."

Terra e sangue dell'Italia.


Un Silenzio che per anni è pesato sulla storia della nostra Nazione; un Silenzio che per troppo tempo ha offeso la memoria di tutti coloro che sono stati uccisi per l'appartenenza ad una Patria; un Silenzio che è stato squarciato nel 2004, tramite l'istituzione del "Giorno del ricordo" dei martiri delle foibe e dei 350.000 esuli istriani, giuliani e dalmati; un Silenzio che ancora oggi qualcuno tenta di usare osservando la storia non dal punto di vista di una memoria condivisa, ma affacciandosi dall'ennesimo steccato ideologico. E' contro questo silenzio che ancora oggi ci battiamo.
Ci troverete in tutte le piazze italiane, nelle scuole e nelle università, negli enti locali. Troverete i nostri gazebi, i nostri volantini, le nostre mostre, i nostri convegni. E questo non perché riteniamo che ci siano morti più importanti di altri, ma perché vogliamo squarciare quell'ultima ondata di revisionismo che ancora oggi non permette di guardare con doveroso rispetto ai tanti e troppi morti nelle foibe, uccisi dal maresciallo Tito per l'unica colpa di essere italiani. La memoria condivisa è un passaggio fondamentale per creare una vera coscienza di popolo, ed è proprio in virtù di questa coscienza che non ci stiamo, ancora una volta, a permettere che le storie legate alla nostra identità nazionale finiscano nel dimenticatoio e non diventano esempi.
Amiamo questa Italia, ogni giorno combattiamo per lei. Abbiamo innalzato al vento il tricolore ad ogni nostra manifestazione e non solo per i 150 anni dell'Unità d'Italia. E allora anche quest'anno accetteremo la sfida, la sfida di combattere gli ultimi eserciti oscurantisti e ideologici, per permettere a questa nostra Nazione di riappropriarsi della sua storia e dei suoi figli.

giovedì 9 febbraio 2012

La Tradizione: forma di resistenza collettiva


Nella sua essenza, la Tradizione è la forma suprema di resistenza collettiva alla morte. La Tradizione è l'unica immortalità disponibile sulla terra e nella storia.  Essa è la sola trascendenza concessa nel fluire dell'esistenza, ovvero la visione di una continuità oltre il raggio individuale di un'esistenza. Tramite la sua continuità e la sua trasmissione è possibile tener vivo ciò che biologicamente appare destinato al tramonto. Ciò che si tramanda è sottratto al deperimento e alla definitiva scomparsa: la Comunità porta in salvo i tesori della Tradizione dalla rovina del tempo. L'uomo, diceva Platone nel Simposio, cerca rimedio alla morte non solo con il corpo, attraverso la generazione dei figli, ma anche con l'anima, attraverso la memoria tramandata ai posteri. L'immortalità spirituale nella vita terrena è dunque consentita in forma di Tradizione; la fama, la gloria lasciata ai posteri, è solo una delle sue modulazioni. Senza Tradizione la vita è consegnata alla labilità occasionale di un passaggio che non lascia traccia. L'angoscia della vita contemporanea risale a quella vertigine della precarietà, alla percezione che tutto muore con noi e nulla lascia impronte. L'angoscia è il lutto della Tradizione interrotta e il panico del divenire che trascorre dall'essere al nulla, senza nulla tramandare o portare in salvo.
La Tradizione è una ripetizione rituale della creazione, una rigenerazione continua del tempo.
A riprova che al di là delle tradizioni inventate c'è la Tradizione, ovvero la forma mentis, la categoria a priori o l'archetipo universale, che pre-dispone la persona e la comunità a collegare e collegarsi, secondo un sapere e una prassi che si configurano appunto in una tradizione. Quanto più e salda e vigente, tanto meno la Tradizione è evocata.
La Tradizione ha la stessa radice di Logos, di Comunità, di Religione e di Destino: in tutti l'elemento cruciale è il legame (legein), il nesso tra le idee e realtà, tra eventi e soggetti di diversa portata. La facoltà principale dell'uomo è quella di annodare, stabilire o scoprire nessi, cogliere le relazioni spaziali e temporali e disvelare la sequenza di causa ed effetto. In ultima analisi la Tradizione è il filo d'Arianna che congiunge Logos e Religio, ovvero il legame secondo l'intelligenza e il legame secondo la fede.

M. Veneziani

Buon Compleanno soldato Paolo. Fino alla vittoria. Con te


Notte fonda. Squilla il telefono di casa, abito ancora con i miei genitori, rispondo io, a quest'ora capitano solo chiamate d'aiuto. Chi finisce in un commissariato, chi in questura, chi in ospedale, chi in prigione. Generazione bella e perseguitata, perennemente in trincea senza che ci sia più una guerra. Stavolta la notizia é un tuono, la voce fioca di Gianni mi dice di andare subito al Policlinico Umberto I, Paolo è in coma. Mi si gela il sangue.

Non ricordo cosa stessi facendo, se stessi dormendo o fossi sul tavolo da disegno a preparare qualche esame, non ricordo nulla. Dalla memoria rattrappita non ho mai cavato granché, rammento di essere uscito di corsa e di soppiatto e di aver schiantato la mia Simca Horizon contro un’auto in borghese della polizia alla stazione Termini. Farnetico qualcosa nell'aria che si condensa nel freddo di una notte ributtante. Giungo al Pronto soccorso, qualcuno già strizza le spalle. Non riusciamo a vedere Paolo, ma lo sorvegliamo per sette giorni e sette notti per proteggerlo, rincuorarlo, resuscitarlo con la veglia e la preghiera. Seduti a terra in un corridoio squallido consumiamo stecche di sigarette, viveri, casse d'acqua, caffè, mentre la folla s'ingigantisce, la processione s'allunga. Quell'ospedale diventa il nostro quartier generale, è da lì che partono manifesti, volantini, murales, cortei nel cuore dell'Africano, il quartiere proibito che Paolo ha osato "violare" affiggendo manifesti in cui chiedeva l'esproprio di Villa Chigi e la sua restituzione ai cittadini, proprio al suo confine. Tutto sembra improvvisamente ridicolo, ma quella dolorosa agonia pare voler dare ancora un senso a ciò che senso non ha.
Guardo Francesco e Giulio, Chicco e Pluto, Enrico, Massimo, Francesca, Roberta, Poldo, Cico, Ringo, Sciattol e penso che niente ci potrà più separare, niente potrà mai corromperci ora che altro sangue cementa le nostre vite.

Il coma persiste, gli animi ribollono, la proposta della vendetta riecheggia con la sua logica dell'occhio per occhio, la follia che ha guidato gli anni 70 ha sete di sangue e rifà crudelmente capolino. Paolo non è un simpatizzante, ma un militante, un soldato. Lo ricordo a Colle Oppio arrivare con la sua moto dopo che una bomba aveva semidistrutto la sede, prendere la scopa d'ordinanza e mettersi a spazzare. Il silenzio era il suo idioma. Mi viene in mente Campo de' Fiori, dove un innocente volantinaggio era diventato la solita "provocazione fascista". Le forze dell'ordine impaurite davanti a una schiera di ultracomunisti ci piantano lì. Noi in venti, con nessuna voglia di scappare e gli altri in corteo ad agitare mazze democratiche. Le lotte studentesche, le prime emittenti televisive private, le ‘avveniristiche’ autogestioni di destra, la voglia di scuotere le coscienze dei giovani, appassionandoli alle idee. I primi vagiti di una 'comunità' che avrebbe voluto affermarsi superando le ideologie e rifiutando la guerra tra fazioni. Stop al disegno dei grandi burattinai al potere.
Lavora silenzioso nello sgabuzzino dove scrive i suoi manifesti a mano, ha i capelli lunghi e arruffati, va in vacanza in tenda, è contro la pena di morte e, per questo, viene sbattuto fuori dalla sezione missina di viale Somalia, destino riservato a molti di noi. Quelli che la volevano, che erano anche razzisti e neofascisti, diventeranno statisti. Scherzetti della democrazia. No, la risposta è che non si risponde, ci diano pure dei "vigliacchi", il "favore" non sarà restituito. La differenza è che vogliamo dare tutto, sferrare il colpo di grazia all'ipocrisia di un mondo costretto alle divise e ai saluti, mettere sulle idee la nostra vita. Forse meritiamo più di un capriccio, di un gesto isterico, di una giustizia casareccia. Non ci aspettiamo che lo Stato consegni gli assassini alla galera, ancora una volta non accadrà, ma vogliamo fare del soldato Paolo l'ultima vittima di un conflitto fratricida. Non altro sangue innocente, ma profumo di vittoria. Poche ore dopo lo avremmo giurato sul suo corpo esangue su cui un'infermiera aveva apposto un giglio bianco nel giorno del suo ventesimo compleanno: auguri, Paolo, fino alla vittoria. Intenzione velleitaria eppure premonitrice di quanto in una manciata di anni sarebbe accaduto nella società. Sortilegio o presagio. I partiti tradizionali saltano per aria, i vecchi schemi caracollano sotto le pietre del muro di Berlino, la storia si rimette in moto e noi le stiamo sul collo.

Improvvisamente il tempo inizia a correre, sembrano gli ultimi respiri... il cuore, la testa, la debilitazione. Prima dell'ultima crisi ci riversiamo ancora in strada, tutti insieme, per urlare la nostra rabbia e bagnare di lacrime l'asfalto, in pugno le nostre bandiere. E proprio mentre l'ospedale è deserto accade il miracolo. Sandro Pertini, presidente partigiano della Repubblica italiana, gli fa visita, mette fine con un gesto a decenni di orride persecuzioni. Qualche ora e Paolo muore. Il giorno dopo Giuliano Ferrara, allora di osservanza socialcomunista, scrive su un editoriale di Repubblica che "uccidere un fascista era reato", che anche se la vita politica di Di Nella era "deprecabile", occorreva dare la dignità al morto. Parole che oggi suonerebbero offensive perché qualunque scelta ideale ha una dignità in vita e non solo quando viene sepolta sotto terra. Ecco il testamento spirituale di Paolo Di Nella, gesti e parole destinati a segnare la fine di un incubo. La cappa di una guerra civile strisciante s'alza con il soffio che spira da questo sacrificio, nuovi fili d'erba si fanno strada in un prato ingiallito. Forse è il segnale che si può andare a scuola e all'università senza patemi, che si possono professare le proprie opinioni, presentare le liste, parlare alle assemblee, leggere liberamente i propri giornali preferiti, non vedersi irrompere dentro casa all'improvviso e senza motivo agenti mitra in pugno, parlarsi al di là della destra e della sinistra... Si schiudono le porte di un'altra era.
Il dolore è un fazzoletto di piombo che t'incappuccia il cuore, ti pesa dentro, le notti non sono più le stesse, inizia la sfida esistenziale per difendere il diritto all'allegria, per non far vincere i seminatori di miseria e trasformare il ricordo in un sorriso. Questo turbine di pensieri, emozioni, eventi, decisioni tanto più grandi di quei ragazzi rendono la morte di Paolo speciale, una sinfonia che irrompe all'improvviso e viola il suo silenzio, come l'avesse preparata in vita per sentirla suonare dall'oltretomba.

Camminiamo nei viali del Policlinico, piove. Siamo in tre. Entriamo in un padiglione, c'intrufoliamo nella stanza, un lettino, un lenzuolo da scoprire. Candido, rasato e col volto così simile a quel giglio. Giuro, giuro che... non l'abbiamo ancora spuntata. Non ti muovere da lì. Buon compleanno, soldato Paolo. Fino alla vittoria.

Giovanni Blini: Una vita, una storia, un bene comune



SABATO 18 FEBBRAIO • ORE 18

Presentazione del libro:
GIOVANNI BLINI
Una vita, una storia, un bene comune



Teatro Tordinona • Via degli Acquasparta 16, Roma 

A seguire...
ORE 20:30 CENA + MUSICA 
Via delle Terme di Traiano 15/a

martedì 7 febbraio 2012

Ritirate il premio Nobel "preventivo"



Da tempi.it
Questo è quello che potrebbe sentirsi dire Obama dalle Fondazione Nobel, ente preposto all’assegnazione dell’omonimo premio, che grazie ad una denuncia di un ricercatore per la pace norvegese, è stata costretta ad aprire un’inchiesta sulle ultime tre assegnazioni del premio Nobel per la Pace, tra le quali quella di Obama. Il premio per la pace, infatti, va a personaggi che si sono distinti per azioni a sostegno della fratellanza tra i popoli, all’impegno per la riduzione degli interventi armati come mezzo di risoluzione di conflitti. Non dovrebbe - il condizionale è d’obbligo - andare a chi fomenta l’odio e le guerre nel mondo. Il paradosso è che, ad oggi, Obama è intervenuto bombardando la Libia, non ha chiuso il carcere di Guantanamo, l’esercito statunitense rastrella e bombarda ancora l’Afghanistan sconfinando anche in Pakistan, minaccia l’Iran e la Siria, ha bloccato i negoziati tra Palestina e Israele e sta installando lo scudo spaziale contro la Russia nel cuore dell’Europa. Quali sarebbero, dunque, i suoi meriti per la pace?

A Barack Obama potrebbe essere ritirato il premio Nobel. È stata aperta un’inchiesta ufficiale sui premi per la pace consegnati negli ultimi tre anni, uno dei quali, appunto, è andato all’attuale presidente degli Stati Uniti. L’indagine è stata avviata dopo le ripetute lamentele di un ricercatore per la pace norvegese, secondo cui l’obiettivo originale del premio è sempre stato quello di diminuire il ruolo del potere militare nelle relazioni internazionali, cosa che gli ultimi premiati non avrebbero fatto.

Negli ultimi anni i campioni della pace sono stati Barack Obama (2009), il dissidente cinese Liu Xiaobo (2010) e il presidente liberiano Ellen Johnson Sirleaf, l’attivista liberiano Leymah Gbowee e Tawakkul Karman dello Yemen (2011). Secondo il ricercatore Fredrik Heffermehl, «Nobel intendeva premiare i campioni della pace. Senza dubbio aveva in mente i movimenti che la promuovono sviluppando le relazioni internazionali». Ma, come ha aggiunto all’Ap, «vi sembra che Obama abbia diminuito i mezzi militari come argomento nelle relazioni internazionali?». La polemica non è una nuova, visto che l’assegnazione “preventiva” del premio a Obama, ad appena un anno dalla sua elezione alla Casa Bianca, aveva fatto molto discutere. Secondo la definizione dello stesso Nobel, il premio dovrebbe onorare chi «lavora per la fraternità tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione degli eserciti e per la promozione di congressi per la pace».

L’accusa di aver tradito l’intento originale del premio è stata inviata ufficialmente per lettera alla Fondazione Nobel di Stoccolma, che farà le sue indagini e forse prenderà i dovuti provvedimenti. In ogni caso, la polemica sembra abbastanza sterile se poi viene indicato Al Gore come esempio di premio ben assegnato: uno che, per intenderci, dopo aver preso il Nobel per meriti ambientali ha ammesso di avere «incentivato il biofuel solo per scopi politici: ho fatto questo errore perché prestai particolare attenzione agli agricoltori del mio Tennessee. E a quelli dell’Iowa: perché allora correvo per la presidenza». Bell’esempio.


domenica 5 febbraio 2012

Giornata del ricordo delle foibe. Eventi consigliati


Nel viaggio, l'uomo. Recensione sulla mostra di McCurry




“Scopo del viaggiare è disciplinare l’immaginazione per mezzo della realtà e, invece di pensare come potrebbero essere le cose, vedere come sono in realtà”  scriveva Samuel Johnsonn, fotografando la realtà del viaggiatore, che prima di organizzare un viaggio lo immagina, lo sogna, lo disegna con la mente; salvo poi immergersi nella realtà e viverla a pieno.
Non si parte se non si ha questa predisposizione, questo forte desiderio, spesso questa ansia, di immaginare, vedere, conoscere, volontà di immergersi e di farsi coinvolgere, con gli occhi, con la mente con il cuore.

Steve Mc Curry è prima di tutto un viaggiatore, un uomo che ha visitato ogni angolo del globo, dirigendosi soprattutto ad Oriente, alla ricerca dell’uomo, e della sua rappresentazione; ogni scoperta è un’emozione,  che è necessario provare a fissare.
Queste  emozioni, queste sensazioni che sono state pubblicate in 30 anni di carriera di Mc Curry come fotografo – reporter del National Geografic si trovano selezionate e raccolte  oggi in una mostra  al Macro di Testaccio.
Muovendosi  tra i “globi” allestiti nell’area dell’ex mattatoio di Roma sembra davvero di imbarcarsi in un lungo viaggio, tra i colori forti delle immagini provenienti dall’India come dal Giappone, dal Kuwait e dal Pakistan, da diversi scenari di guerra (Afghanistan, Cambogia, Libano, Jugoslavia), ma anche dall’Italia, da Roma, Venezia, da Parigi: non è necessario compiere un viaggio esotico per fissare una emozione. L’occhio del fotografo americano si fissa ovunque si trovi, compiendo il lavoro meccanico ed emotivo di ogni viaggiatore; che osserva, scruta alla continua ricerca di analogie, differenze, unicità.
Nei fumi del petrolio bruciato della guerra della guerra in Kuwait, nella polvere delle torri gemelle dopo il  crollo, nel fervore religioso che trascina i santoni indiani come i portatori di santi siciliani; e questi movimenti questi colori distinti e distanti sembrano fondersi.
Il coraggio di partire, ed esplorare le sorti di luoghi  dove gli altri non possono o non vogliono andare, nell’Afghanistan della guerra contro i russi, eroismo e miseria, ma soprattutto grande dignità espressa dalla durezza dei volti, e dalla dolcezza dei sorrisi dei combattenti.
Ma non bisogna farsi trascinare troppo lontano, nei movimenti come nei momenti spesso tragici della storia. Perché c’è una sola ricerca al fondo di questo continuo muoversi, fissarsi, ed è la ricerca ultima del viaggiatore come  del fotografo, che scattano incessantemente alla ricerca dell’uomo.
Come si somigliano quei bambini armati, dall’Afghanistan all’Africa, quei volti da adulti su corpi di dodicenni, nei quali occhi la camera si fissa. Volti che non parlano, comunicano, e ti tengono inchiodato a dialogare con gli occhi; volti, pieni,  anneriti, consumati, sorridenti, da Roma all’India, passando per lo sguardo intenso di una giovane Afghana, per le lacrime di un bambino peruviano che si punta una pistola; immagini divenute famose in tutto il mondo, entrate nella storia,  icone, che però non smettono di stupire per la loro intensità, e che raccontano più di centinaia di inutili scatti a monumenti, strade, insegne etc.etc. che spesso riportiamo dai nostri viaggi.


“ Chi non viaggia non conosce il valore degli uomini” , recita un proverbio moresco; e ti viene da sorridere quando senti una ragazza vicino a te provare a spiegare ad una amica simmetrie e linee geometriche presenti nelle foto che ti circondano. Se uno studio c’è negli scatti di Mc Curry, è lo stesso studio che si riscontra negli occhi di ogni viaggiatore, che ama e studia l’uomo nel suo rapporto con l’ambiente, con la storia, con le tradizioni, nella sua completezza.




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