martedì 18 dicembre 2012

Con voi. Comunque vada.


di Marcello De Angelis

Chiunque mi legga, anche per cogliermi in fallo e criticarmi, mi rende onore. Penso a quelle migliaia di persone che passano le giornate a scrivere velenosi insulti su blog e siti altrui per illudersi di essere ascoltati. Io invece sono fortunato. Se il prossimo solstizio – come sostiene la profezia maya – finisse il mondo, non avrei molti rammarichi. La vita mi ha dato molte soddisfazioni e anche l’esperienza di questo anno e mezzo come direttore del Secolo, in cui la vicinanza dei lettori e soprattutto di chi ha lavorato con me per salvare questa storica testata è stata meravigliosa. Nella comunità politica della quale ho fatto parte ormai per 40 anni (mi sono iscritto con mio fratello al Msi a 13 anni) sembra essere arrivata di nuovo a un punto di snodo che comporterà forse scelte distinte. Nel rispetto di ognuno, questo mi provocherà dipiacere, perché allenterà alcuni legami, anche se non minerà le amicizie. Non ho condiviso buona parte delle scelte che questa comunità si è trovata a fare in questi decenni, eppure non ho voluto o forse potuto allontanarmi mai dal corso del suo fluire. In disaccordo, in dissenso, brontolando, ma senza mai potermene distaccare. Come non si cambia il nome di famiglia. Come non si può diventare altro da sé, nemmeno se ci si costringe a cambiare nome. Mi manca ogni persona che ho incrociato in questo lungo cammino e che ho perduto. Anche quelli che si sono perduti da soli, anche quelli che si sono perduti persino a se stessi. Morti e vivi, amici diventati nemici, chi mi ha tradito e chi si è sentito tradito da me. Chi ho amato e chi ha smesso di amarmi. Serberò tutti nel cuore. Comunque vada.

Solstizio 2012

"L'anima della terra s'addormenta nell'afa dell'estate;
chiaro s'irradia il riflesso del Sole nello spazio.
Ma della terra l'anima si desta nel gelo dell'Inverno;
e dentro il cuore spiritualmente riluce il vero Sole.
Il luminoso giorno dell'estate è sonno per la Terra;
del Natale l'oscura sacra notte è per la Terra giorno."

lunedì 17 dicembre 2012

E' sempre colpa tua!



La necessità di non andare avanti da soli, si profila come l'unica speranza per il cambiamento che sì, deve partire anzitutto da noi stessi ma non può fermarsi, circoscritto, nella nostra coscienza. 

Sindrome da delega: Fa rabbrividire la volontà, decelera l'entusiasmo e amputa la speranza. Siamo tutti coinvolti in un processo di de responsabilizzazione, viviamo nella perenne necessità di un commissariamento coatto. Diamo sempre la colpa agli altri, dalla Politica nazionale, all'economia, fino ad arrivare alla gestione del condominio la ventata di sfiducia ha toccato percentuali altissime. Crediamo di non farcela e soprattutto siamo convinti che le ragioni delle nostre condizioni provengano esclusivamente dall'esterno. Umberto Tozzi e Gandhi, cos'hanno in comune? La canzone "Gli altri siamo noi" assomiglia tanto alla frase pronunciata dal mahatma nemico degli inglesi " Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo" eppure, nonostante il concetto possa sembrare abbastanza semplice, passiamo la metà delle nostra vita a cullarci sull'amaca del lamento, se pure fosse vero che questa vita facesse schifo,  passando metà della stessa a raccontarlo può solo che peggiorare. Politica, economia, società e famiglia, sono la diretta conseguenza dei nostri comportamenti, sono lo specchio, forse un po' opaco, che ritrae i nostri volti scontenti.
Funziona un po' come per la legge di gravità, tanto più siamo convinti che qualcosa stia per avvenire quanto avviene per davvero! Specie se ciò che deve avvenire è qualcosa di negativo e allora, perché continuare a frustrarci in questo modo? Se solo i nostri nonni sapessero che noi abbiamo ascensori, macchine, cellulari, vestiti per coprirci, pane e acqua tutti i giorni e ci mettiamo a urlare perché c'è stato un blackout nella metro ci piglierebbero a schiaffoni e non farebbero affatto male! 
In effetti, quanti calci (emotivi, si intende) daremmo a tutti coloro che sono perennemente scontenti? Per tutelare le nostre docili caviglie non possiamo fare altro che esportare gioia, essere contagiosi, pacche sulle spalle a volontà, risa ed entusiasmo, non possiamo di certo cadere nella trappola anche noi! 
"La parola d'ordine è una sola categorica e impegnativa per tutti" mica è una frase detta così a caso, si, poi la guerra l'abbiamo persa ma forse perché c'era troppa gente che si lamentava! 

Giorgia Meloni attacca la massoneria.

sabato 17 novembre 2012

Sull'Alta via “La felicità è una direzione, non un luogo”

Laboratorio D'Azione

Il nostro viaggio sulla Classica, l'Alta via numero 1 delle Dolomiti.

“La felicità è una direzione, non un luogo” recita un vecchio detto che sembra ricordarciche la meta conta spesso meno del viaggio stesso. In questa solo apparente oscillazione tra la passione per il percorso, e la volontà di raggiungere una meta ci muoviamo spesso quando viaggiamo, ma anche nella Via che è la vita, senza spesso riuscire a capire che la meta potrebbe non essere un punto di arrivo.
L’unica cosa certa spesso è il punto di partenza, nel nostro caso il Lago di Braies, qualche manciata di km da Dobbiaco, terra di Alto Adige, o di Sud Tirolo, dipende, come spesso capita, più dai  punti di vista che dalle appartenenze. Siamo arrivati qui dopo una decina  di ore di viaggio da Roma, 3 cambi di treno e un autobus, che hanno già messo alla prova la nostra capacità di spostamento con gli zaini. Ma la fatica attuale o potenziale non è il nostro primo pensiero quando raggiungiamo il Lago, con l’imponente, per questi luoghi, albergo che gli fa da cornice.
Qui negli ultimi mesi della seconda Guerra mondiale furono trasferiti diversi “ospiti” illustri, prigionieri, oggi si direbbe “Vip”, del campo di Dachau. Ai crimini perpetrati nei campi di concentramento e detenzione d’Europa e non solo, fa da contraltare questa prigione d’alta quota con i suoi boschi maestosi a fungere da barriere naturali che scoraggiano l’evasione.
Dietro già si stagliano le più belle montagne d’Europa, incombono sul lago e si specchiano vanitose, quasi a ricordare che la romantica bellezza del lago deve inchinarsi alle vere signore di queste terre, le Dolomiti.



E d’altronde anche noi abbiamo poco tempo di prendere confidenza con questo splendore ancora umido della pioggia appena caduta, di provare a percepirne gli odori, viverne la pace.
Da queste parti gli alberghi mantengono, anche per gli ospiti, abitudini montanare: si cena,e si va a dormire presto, tutti o quasi. Fa eccezione il pianista austriaco che quando torniamo in camera continua imperterrito, come fa ormai da ore, a bere improbabili misture di spumante e gin, saltellando sul piano, tra le risate e i sorrisi leggermente imbarazzati degli ospiti. Lui continuerà a suonare per buona parte della notte, con il pubblico che mano mano lo abbandona al suo destino alcolico; quasi tutti dovranno infatti alzarsi presto per mettersi in cammino.

Il Lago di Braies è il punto di partenza fissato su tutte le mappe e descrizioni per il percorso dell’Alta via delle Dolomiti numero 1, quello sul quale ci stiamo avviando con i miei due compagni di viaggio, Giak e Darioski. Le alte vie sono percorsi escursionistici percorribili in più giorni,  e suddivisibili in più tappe, durante i quali si pernotta in rifugi e bivacchi; percorsi lineari di qualche decina di km, e non escursioni giornaliere quindi da un punto ben preciso e ritorno.
Sulle Dolomiti sono stati tracciati diversi di questi sentieri, quella che ci accingiamo a percorrere è una delle più belle dal punto di vista paesaggistico, l’alta Via numero 1, definita la Classica.
È da mesi che con Giacomo avevamo studiato ed aspettato questo momento, quindi partiamo la mattina molto presto anche per cercare di evitare il caldo di una giornata che pare aver dimenticato le nubi del giorno prima e si preannuncia assolata già dalle prime luci.
Giriamo intorno al Lago, la direzione è quella delle montagne che la sera prima ci avevano da subito incantato, si comincia a salire sulle prime pietraie, e già rispetto alle altre esperienze di montagna che avevamo avuto,  sentiamo il peso di qualcosa di nuovo, qualcosa che ci tira a terra, e ci fa sudare come fossimo in spiaggia a mezzogiorno del Ferragosto, anche se sono solo le 8 del mattino e ci stiamo dirigendo verso i 2000 metri.
 In partenza da Roma non avevamo guardato molto al peso degli zaini, anche se avevamo fatto attenzione ovviamente a non caricarli troppo. Lo stretto indispensabile per una settimana, con i dovuti cambi. Scoprirò al ritorno che sono 15kg scarsi, ma in quei primi momenti sembravano duecento. Mentre la strada si fa sempre più ripida, e non si riesce a vedere ad occhio dove la salita terminerà,  ogni passo si pianta più pesante sul terreno: inizi così con l’inventario di tutto quello che hai messo dentro lo zaino, e maledici ogni cosa che in quel momento ti sembra superflua, dal libro già letto e sfogliato decine di volte, ai troppi paia di mutande, fino al  campioncino di profumo inserito all’ultimo tra gli oggetti per la pulizia personale, e che ovviamente non verrà mai utilizzato. Sono momenti interminabili, il primo sforzo.
Poi pian piano il passo si regolarizza, ci si abitua alla fatica, si sale regolari cercando di evitare soste inutili, e i primi mille metri di dislivello fatti tutti di un fiato volano via in poco più di tre ore. La Croda del Becco a farci ombra, ed uno strudel al Rifugio Biella per ristorarci, e ripartire quanto prima. Avevamo già deciso prima di partire che non avremmo sostato qui, ma che avremmo unito questa prima tappa prevista dall’Alta via, ad una parte della seconda. Così ci rimettiamo gli zaini in spalla, attraversiamo una splendida conca, ricca dei colori che avevamo immaginato. La strada è larga e piana, e così questi 10 km che ci separano dall’arrivo al nostro primo pernotto diventano decisamente più leggeri, anche se nella  lunga discesa verso il Rifugio Pederu bruciamo quasi tutto il dislivello salito fino a quel momento.
Nonostante doccia, cena, ed un paesaggio dolce di pastelli,  che all’imbrunire colora di rosa ogni cosa che ci sta intorno, ce ne andiamo a dormire abbastanza rotti. Non sono ancora le dieci, ma la tappa di domani è tra tutte la più dure, ed è necessario ricaricarsi. Il silenzio assoluto della valle è in questo un ottimo corroborante.
Camminiamo già da un po’ quando ci lasciamo alle spalle la coppia di francesi con cui abbiamo diviso la camerata. Corpulenti, incedono con un passo lento, ma costante, mentre noi abbiamo intenzione di bruciare le tappe per toglierci dalla mente questa tappa sulla carta così dura; tanto da perderci per un po’ darioski, che ritroviamo al passaggio del rifugio Fanes, dopo un paio d’ore di camminata. Siamo solo all’inizio, ma il tempo sembra essere dalla nostra parte , ed un sole deciso ci accompagna alla scoperta della splendida  Val di Fanes, un distillato corposo di tutto il campionario che le Dolomiti possono offrire: nel verde brillante della valle che ci fascia con i suoi dolci pendii, paciosi pascolano vacche e cavalli, che trovano ristoro nei ruscelli che attraversiamo.
La sosta in questo angolo di paradiso vale una giornata di cammino, anche se dura comunque troppo poco; ma è ora di rimettersi in marcia, il passo lascia il comodo verde e ricomincia ad assaggiare la roccia.
Giack tira su un improbabile cappello da montanaro primo novecento e parte con un passo deciso difficile da seguire , se non a distanza. Un percorso in costante salita ci tira su a toccare i massicci che scorgevamo poco prima in lontananza, mentre vediamo il mondo aprirsi intorno a noi, l’immenso spazio aperto che disegna i profili sfumati ma riconoscibili della Sella Ronda, l’Alpe di Siusi, e poco più distante la Marmolada, che solo a nominarla vieni percorso dai brividi.
I brividi che ti prendono anche quando raggiunta Cima Scotoni ti affacci e vedi la picchiata che ci farà scendere in breve 500mt di dislivello su di una pietraia con pendenze da pista nera. È un attimo, si prende il respiro e si comincia a scendere, in breve siamo al Lago Lagazuoi.
Il tempo sta velocemente cambiando, il caldo della Val di Fanes è già un ricordo, il vento lento , ma costante ha trascinato su di noi nuvole che non promettono nulla di buono. Ogni sosta diventa a questo punto superflua, è ora di iniziare la salita verso il Rifugio Lagazuoi, che si para maestoso in lontananza. In breve comincia a piovere, è necessario coprirsi come viene, e continuare a camminare, la salita costante che ci si para davanti.
Il dolore sulle spalle comincia a farsi sentire proprio mentre saliamo tra i resti dei baraccamenti della Prima guerra mondiale. Qui erano sistemate  diverse posizioni di artigliera; da qua infatti gli austriaci dominavano la valle circostante, da dove provenivano i rifornimenti per le posizioni più avanzate.
Mentre aggiriamo i baraccamenti, è  scesa la nebbia, e ormai Giacomo che ci precede non si vede più quando ci apprestiamo per salire l’ultima rampa: alla nostra sinistra le gallerie scavate dagli austriaci, come postazioni difensive, ma anche gli ingressi dei tunnel scavati nel tentativo di far saltare la mitica Cengia Martini, la postazione italiana abbarbicata sul versante Nord della montagna, per anni vera a propria spina nel fianco nella inespugnabile fortezza del Lagazuoi.
Quella che di inverno è una comoda pista di sci diventa per noi una piccola via crucis. Sono quasi nove ore che siamo in marcia, sul sentiero ci siamo solo noi,  e mentre vento e pioggia sferzano il cammino, lento come non mai, è necessario più volte piegarsi su se stessi per trovare le forze per arrivare fino in fondo.
Quando siamo finalmente sulla soglia del rifugio, nostra meta quotidiana e bivacco per la notte, aspetto Dario per un abbraccio liberatorio. Ho la sensazione che lui non apprezzi o non ne afferri il significato, ma ce l’abbiamo fatta!
Rifugio Lagazuoi, 2752 metri, poco sotto lo spuntone della Vetta,  la nostra Cima Coppi, fortezza inespugnabile nella Prima guerra mondiale, di cui porta ancora le cicatrici. Kilometri di gallerie, italiane e austriache, scavate nel tentativo di far saltare con l’esplosivo le posizioni nemiche, nella più spettacolare, e tragica per il territorio, guerra di mine che la storia ricordi.  
Tante ore di cammino alle spalle, tanta fatica e in alcuni momenti la sensazione di non farcela, di non arrivare in tempo, di doversi fermare.
Anche senza compiere imprese titaniche, ardite scalate, l’unica chiave, la reiterata lezione è sempre la stessa, e trascende qualsiasi filosofia, che pure giustamente prova a spiegarla; si raggiunge ogni vetta, dalla più facile alla più difficile, un passo alla volta, pensando cioè in ogni momento solo al passo che stiamo compiendo.
In quel momento siamo soli, anche se il ristoro dei compagni può esserci utile, è con noi stessi che parliamo, dialoghiamo, lottiamo quando il passo arranca; ed è in noi stessi che c’è la forza per fare il passo successivo.
Tutto il resto è turismo, anche se con questi scenari intorno, è un magnifico turismo.

La nebbia intorno al rifugio deve ancora diradarsi quando scende la notte, e con lei una serie di meritati cicchetti di corroborante bombardino.
La mattina quando ci svegliamo la nebbia è scomparsa, il maltempo fuggito. La  finestra della cuccetta che abbiamo condiviso anche questa notte con gli amici francesi, si apre su un salto di mille metri, il cielo abbaglia di un blu intenso che solo l’alta quota conosce.
Fatica e stanchezza sono un ricordo lontano, l’energia fluisce come adrenalina.



Fuori il freddo viene sfidato solo da qualche uccello avvezzo alle altezze, quando ci rimettiamo in marcia. La strada oggi è comunque decisamente più lieve, la veloce discesa ci porta al Passo Falzarego, e dopo poche ore di cammino ci troviamo già in vista delle Cinque Torri alla nostra sinistra, e il Rifugio Nuvolau, la nostra meta di oggi, sulla nostra destra.
Quando arriviamo il rifugio pare qualcosa di non molto diverso da un paninaro di montagna. C’è a malapena lo spazio per muoversi tra escursionisti della domenica e fagottari vari. Cortina, che iniziamo a vedere proprio dai 2500 mt del rifugio, è molto vicina, e qua si paga lo scotto del turismo estivo di massa.
Così posiamo gli zaini e decidiamo di andare a fare un giro a quella che fu la Fortezza naturale del Cinque Torri, sotto le cinque ( ora 4! ) torri  che sovrastano Cortina in fronte alle maestose Tofane.

Qui sono stati ricostruiti camminamenti e baraccamenti della Grande Guerra. Superato il kitch dei manichini con divise italiane dell’epoca, camminando tra le trincee si cerca di tornare a quello scontro epico di cui queste montagne furono spettatrici e protagoniste ad un tempo. Uno scontro tra uomini al limite delle condizioni di sopravvivenza, un concentrato di tragedie e gesti di eroismo di cui queste rocce portano la memoria. In particolare l’area delle Cinque torri fu occupata dagli italiani nei primi giorni di guerra, quando gli austriaci lasciando Cortina si attestarono sulle linee del Sass de Stria. Postazione utilissima da cui fu possibile difendere il corridoio di rifornimenti che arrivavano dal Passo Valparola. Ma anche magnifico punto di osservazione, soprattutto dalle alture del Nuvolau e dell’Averau, su tutto il fronte del Col di Lana Passo Stief: divenne quindi in breve centro di comunicazioni, posto d’osservazione, base di servizi di ogni tipo, nodo cruciale per le retrovie italiane. 
I duelli di artiglieria iniziarono già nel giugno del 1915. L’allestimento di opere difensive robuste e sicure fu necessario non solo per l’eventualità sempre possibile di un attacco, ma soprattutto perché la posizione avanzata e panoramica significava esposizione al tiro nemico, soprattutto dalle postazioni fortificate del Sass de Stria e del Lagazuoi. Da questa trincea quasi naturale gli italiani si concentrarono quindi sulla continua attività di osservazione e sull’impiego di artiglieria nelle azioni di disturbo e a sostegno dei combattimenti che si combattevano feroci fino al corpo al corpo nella vallata sottostante[1].
Con la mente e il cuore agli eroi che fecero l’Italia libera, integra e indipendente, torniamo sui nostri passi.

È ora di tornare al rifugio passate le 16.30  è possibile tornare sulla “torre” del Nuvolau per prendere posto nelle camerate del rifugio. Lo scenario è ben diverso da quello visto poche ore prime.  Nessun “fagottaro” in giro, solo qualche escursionista solitario che scende verso valle, mentre la temperatura scende, accompagnata da una leggera foschia. Intorno solo quelli che saranno i nostri compagni per questa notte, a riempire i 24 posti letto a disposizione nel Rifugio. Il Nuvolau (Ex Sachsendank) è il primo rifugio ad essere stato costruito sulle Dolomiti orientali, inaugurato nel 1883. Distrutto durante la Grande Guerra fu poi ricostruito.

Nel darci il benvenuto, Chiara ci illustra la “vita” al Nuvolau: si dorme solo con il sacco, scarponi sull’uscio, bagno all’ esterno, luci spente e silenzio alle 22 e soprattutto, niente acqua corrente. Abbastanza spartano da innamorarci subito, di questo vero rifugio, quello che ti aspetti di trovare a 2500mt sulle Dolomiti, non un albergo tirato sulle montagne! La sindrome da innamoramento prosegue quando Chiara ci presenta la nostra stanzetta, un letto singolo ed uno a castello, e lo spazio a malapena per posare uno zaino, ma una finestra che affaccia sullo spettacolo delle Tofane e Cortina , alla distanza che ci consente di guardarla con il dovuto distacco.
Il tempo di sistemarsi,  di una birretta per godersi lo spettacolo della quiete del vuoto e delle montagne che abbiamo intorno, che la signora Giovanna, finito di raccogliere i fiori per ornare i tavoli,  incalza con le ordinazioni per la cena. Si cena alle 18.30 , senza deroghe per i terroni come noi che a quell’ora al massimo sperano in un thè con i biscotti.

Il clima è quello caloroso della piccola osteria, quando si cominciano a servire i primi canederli, seguiti da polenta e salsicce ed il tempo sembra fermarsi; fuori è salita la nebbia, intorno fuori dalle finestre di vede poco, ma di fatto è ancora giorno! Mentre la nebbia ci impedisce di godere del tramonto su Cortina, all’interno il clima è già notturno. È il momento della partenza dei vari giri di grappe, a tirare fino alle 10 quando “suona” il silenzio.
Nella stretta stanza si riassettano i pensieri, la mattina sarà sveglia alle 6.30, così ad avvicinarci maggiormente, come spesso succede in montagna, ai ritmi della natura. Si va a dormire poco dopo il tramonto, ci si alza con il giorno che nasce.

Un altro giorno di cammino, che inizia con una colazione essenziale, ma abbondante per avere la forza necessaria a chiudere gli zaini per ripartire salutando il Nuvolau, che per atmosfera e calore vincerebbe il confronto con qualsiasi albergo con le stellette.
Quella che ci attende è più che altro una lunga tappa di trasferimento, con dislivello soprattutto in discesa. In breve siamo al Passo Giau, mito di tanti ciclisti, risaliamo alla Forcella  Ambrizzola per poi attraversare il Pianoro di Mondeval . Siamo entrati nel Cadore, Pascoli verdi che farebbero impallidire le dolci colline che si incontrano sulla strada tra Dublino e Galway. Scenari e paesaggi stanno lentamente cambiando mentre lasciamo le dolomiti altoatesine per immergerci in quelle bellunesi. 


Camminiamo ormai da qualche ora quando la durezza della roccia e delle vallate di prati sconfinati, lasciano spazio al fitto bosco; dopo ore e giorni di camminate sono io a prendere la “testa”su questo sentiero dove sembriamo esserci solo noi. Il passo è spedito in questa lenta discesa senza sosta, dove per diversi momenti tempo e spazio sembrano annullarsi, laddove le gambe sembrano andare da sole, sicure decise. Tornano alla mente alcune parole lette e tratte dai canti dei Wanderwogel, gli studenti tedeschi che sul finire dell’Ottocento tornarono a scoprire la forza ancestrale di boschi e montagne, a snobbare la monotonia borghese della città per riabbracciare la natura come essenza primaria e levatrice di spirito e comunità, quando “La disciplina della marcia, l’ascolto della forza del bosco, costituivano un tentativo istintivo di immergere la vita in una dimensione atemporale”[2]


Forse Darioski e Bruno non riescono a comprendere la mia emozione quando il bosco si apre sulla radura che ospita il Rifugio Città di Fiume, quota 1900 mt. Sul pennone che si para all’ingresso dell’area del piazzale sventola fiera ed alta la bandiera della città che fu protagonista con D’Annunzio ed i suoi legionari, di uno dei più emozionanti esperimenti rivoluzionari che la storia d’Italia ricordi. Una città sacrificata agli interessi dei vincitori della seconda guerra mondiale, e regalata ai nemici d’Italia, come buona parte dell’Istria e di tutta la Dalmazia. Non è un caso che su questo rifugio, gestito comunque dalla sezione del Club Alpino Italiano di Fiume, sia posta  all’ingresso la targa che ricorda tutti i rifugi che il Cai di Fiume costruì e gestì, fino all’abbandono causato dal passaggio delle terre che li ospitavano in mano ai nemici d’Italia.

Purtroppo abbiamo solo il tempo di scambiare qualche battuta con i gestori, una forte stretta di mano ed un in bocca al lupo. Come sapevamo già in fase di pianificazione, il città di Fiume è pieno, dobbiamo quindi rituffarci nel bosco, questa volta insieme ad un gruppetto di austriaci, con i quali ci “rincorriamo” dal risveglio al Nuvolau, e riprendere la marcia per scendere ancora più giù, in direzione del nostro “bivacco” per stanotte, un alberghetto, il Rifugio Passo Staulanza, che ci consente di sistemarci alla confortante ombra dell’imponente Monte Pelmo.

Abbandoniamo sul presto la comoda camerata dello Staulanza, lasciando nel letto un paio di svizzeri che ancora devono smaltire la sbornia del giorno prima. Noi invece abbiamo ancora sullo stomaco le salsicce e la polenta  quando ci incamminiamo sull’ultima salita impegnativa di questo viaggio. Protetti dall’enorme ombra del Monte Pelmo ricominciamo a salire per raggiungere un altro gigante delle Dolomiti, il Monte Civetta.  Per i tornanti che ci porteranno dalle  prime piste da sci del  comprensorio sciistico, si intensifica il numero degli escursionisti. Sono in molti a salire dalle valli del bellunese in direzione del Rifugio Coldai, per godersi il pranzo con una fantastica vista sulla Val di Zoldo, e con il corroborante spettacolo dell’omonimo laghetto d’alta quota.
Anche noi non resistiamo alla tentazione di fermarci a riposare intorno al laghetto, prima di ripartire.

In breve siamo in vista del Rifugio Tissi, 2250 metri. Nel sentiero che ci porterà a raggiungerlo, camminiamo in uno dei paesaggi più d’impatto attraversati in questo viaggio. Alla nostra sinistra corre il massiccio del Monte Civetta, un imponente susseguirsi di picchi, fino alla parete che conduce in cima; una parete con un dislivello di 1000 metri che conduce in una ascesa da mozzafiato anche solo con lo sguardo,  ai 3220 mt della vetta. Sullo strapiombo alla nostra destra, un salto di ca. 800 metri di dislivello spinge la vista fino al paese di Alleghe, con la sua diga e relativo lago artificiale.
È un viaggio sospeso tra la magia del paesaggio e la paura di prendere in pieno l’acquazzone che marcia compatto con le nuvole nere che ci vengono incontro, che ci conduce  al Rifugio Tissi. Ormai siamo abituati alla stanchezza che dopo diverse ore di cammino, ti assale in vista della meta, quando le spalle sembrano venirsene giù insieme allo zaino. È il momento di stringere i denti, e in un attimo il passo si fa più deciso, duro e costante.
Quando arriviamo intorno alle 17, il Tissi è già pieno.  Molti si fermeranno qui per la notte, altri finiranno la loro birra continuando a fissare  senza sosta la parete del Civetta, sogno proibito anche per molti alpinisti esperti, per poi ridiscendere a valle in direzione di Alleghe.
 Il Rifugio è sistemato  in una posizione che fa pensare che anche durante la costruzione lo sguardo fosse sempre rivolto alla montagna, in un misto tra proiezione ed ammirazione. 


Pochi metri nella direzione opposta, ed un baratro per stomaci forti e menti libere da vertigini si apre sulla valle di Alleghe. Tutto intorno mentre il cielo è carico di nuvole rosa che sembrano aver assorbito il colore unico della roccia dolomitica, mentre il tramonto rimane nascosto.

È la nostra ultima notte in rifugio, forse anche per questo non riusciamo ad apprezzare fino in fondo il servizio e la cena. Sono le 19 quando abbiamo già finito di mangiare, e questa sera i giri di grappe, tutte artigianali, gusti forti ed intensi,  hanno un sapore leggermente più amaro. Le foto in bianco e nero di Attilio Tissi, cui il rifugio intitolato, in cima al Civetta insieme alla moglie Mariolina, sembrano messe apposta per tirare via un po’ di malinconia.
Quando torniamo nella camerata, i nostri compagni per questa notte sono già andati da un pezzo. Si alzeranno intorno alle 3 , suonando per la nostra gioia una gustosa sinfonia con i loro attrezzi da scalata.

Poche ore dopo è il momento di iniziare l’ultima tappa, ripercorreremo la strada dell’ultima tappa, per poi deviare attraverso le piste da sci che scendono fino al paese di Zoldo. Abbiamo tutto il tempo per sostare nuovamente al laghetto  del Coldai per riordinare i pensieri.

Il tracciato dell’Alta via numero 1 proseguirebbe con altre  3 / 4 tappe fino a Belluno, ma come già stabilito, il tempo a nostra disposizione è terminato. Siamo comunque consapevoli di aver visto, vissuto e conquistato la parte più bella e suggestiva del percorso.

Scendiamo così fino al paese di Zoldo, dove sosteremo per la notte,  prima di ripartire per Longarone – Venezia –  Roma.

Scendendo le ultime rampe che ci riportavano in paese, un senso di soddisfazione si mescolava ad una intensa consapevolezza. Quella di aver vissuto una esperienza seppur breve, assolutamente intensa, una conquista del tracciato fatta momento per momento, passo dopo passo. “Toccare” con mano, sudore, fatica, stanchezza, roccia, terra, pioggia: la montagna. Una conquista che andava di pari passo con la crescita e la soddisfazione di se stessi. Qualcuno chiama questo tipo di viaggi “trekking” , un termine generico ed assolutamente non  esaustivo come molti termini anglofoni che popolano il nostro parlare quotidiano. Un viaggio vissuto con il coinvolgimento di corpo, cuore, mente e spirito, è sempre una avventura.
Spasso in montagna di tratta di una avventura dove la partenza cambia, così come l’arrivo, ma dove la meta che si conquista rimane sempre la stessa. La consapevolezza di se, che lava via tutte le scorie della vita “ a valle” . La meta raggiunta quando:

“la voce degli interessi non ha più potere in me.
Quando guardo nella mia anima,
Il lume all’interno del recipiente si presenta distinto dalla coscienza
E non temo la sciocchezza e la stupidità….”

Da Vita di Milarepa

mercoledì 24 ottobre 2012

Lettera dall'Ungheria. Più di centomila in piazza per difendere il governo.

Ungheria 23 ottobre 2012

In Ungheria, nel 1956 la popolazione non ha piú voluto il comunismo e per questo il 23 ottobre é iniziata la rivoluzione popolare.Tanti uomini,donne e bambini coraggiosi hanno combattuto per la fine del comunismo.Tanta gente ha perso la vita per la libertá dal comunismo.
I capi politici ungheresi comunisti hanno avuto paura quando hanno visto che la popolazione che insorgeva contro di loro aumentava sempre di piú ed era sempre piú forte, allora hanno pensato di chiamare di far intervenire in Ungheria i sovietici con i carrarmati che in modo brutale e violento hanno messo fine alla rivoluzione della popolazione.Tanti uomini,donne e bambini sono morti e come se non fosse stato abbastanza i comunisti ungheresi hanno perseguitato,incarcerato e minacciato le persone che avevano "combattuto” contro il comunismo.
Oggi siamo nel 2012 e sono passati esattamente 56 anni. La situazione é simile perché nel 1956 i carrarmati hanno schiacciato la popolazione ungherese, adesso vogliono schiacciare l'Ungheria con l'economia europea dei socilalisti e liberali. Nel 2010 la popolazione ungherese ha votato il governo Orbán Viktor che ha ottenuto 2/3 dei seggi del parlamento. Orbán Viktor ha ricevuto dal vecchio governo comunista tanti debiti ma ha fatto comunque  tanti passi avanti ed é riuscito a far riemergere poco alla volta l'Ungheria dal "buco dove era stata messa".
Oggi c'é una non felice sitazione al mondo ma Orbán Viktor é riuscito comunque a portare delle modifiche positive come alzare le pensioni ed aiutare le famiglie in tanti altro modi. Tante modifiche ha portato Orbán come le tasse che devono pagare le banche allo stato ungherese e anche le societá multinazionali. Per queste sue manovre Orbán é visto di malo modo all'estero anche perché i mass media stranieri (giornali e televisioni) diramano notizie errate e non controllono la veridicitá delle fonti e anche oggi vogliono che si dimetta. Ma la popolazione ungherese non si dimentica dell'anno 1956 e la popolazione protegge il governo ungherese e Orbán Viktor. Ieri 23 ottobre 2012 abbiamo fatto vedere a tutto il mondo che siamo tantissimi affianco al governo Orbán Viktor e siamo vicini alla persona Orbán Viktor.

Gentili persone italiane,vi auguro tanto bene per le vostre situazioni.

Cordialmente Kovács András.













giovedì 11 ottobre 2012

Iran: pena di morte - Intervista esclusiva (Radio Irib)



Clicca sul link per ascoltare l'intervista

Secondo i dati di Amnesty International, l'Iran risulta secondo dopo la Cina per esecuzioni attraverso la Pena di morte. Abbiamo deciso di intervistare il responsabile di Radio Irib, emittente iraniana, per capire se questi dati corrispondono al vero.


martedì 2 ottobre 2012

Chiara Colosimo e la macchina del fango


http://www.catoneilcensore.com/

La chiamano "macchina del fango" ma in verità è lo stato in cui si è ridotto il giornalismo moderno, (ig)nobile professione oramai screditata di qualsiasi credibilità, prima di qualunque deontologia. In questa triste democrazia dei consumi l'attività principale del giornalista è infatti una soltanto: individuare la notizia che fa scalpore, che fa così alzare il numero dei clic sul proprio portale e di conseguenza le vendite pubblicitarie. Poco anzi nulla importa che questa notizia sia vera, o che sia interessante, o tantomeno che sia raccontata in maniera onesta.
Facciamo un esempio. Mentre scrivo, gli accessi al mio blog dell'ultimo mese sono esattamente 1710. Se io guadagnassi soldi per un'eventuale pubblicità sul mio blog, chi mi paga per lo spazio mi chiederebbe di avere il conto preciso degli accessi al sito, in maniera da valutare quanto "vale" la pubblicità sul mio sito, e quindi quanto pagarla. Più lettori, più soldi. Questo comporta che - se lo scopo del mio blog fosse guadagnare - io sarei portato a scrivere qualunque cosa produca una crescita del numero dei miei lettori.
In questo caso avrei due strade: o mettermi a raccontare i dettagli di come nonno Michele o sua moglie avrebbero ucciso la povera nipotina in quel di Avetrana, indugiando sui dettagli macabri e scabrosi, sui rapporti famigliari, sul profilo psicologico della vittima e del carnefice, e decuplicando così gli accessi grazie al voyeurismo morboso dei lettori; oppure, più semplice, potrei rovinare la reputazione di qualcuno, possibilmente insospettabile.
In questo caso il gioco è fin troppo semplice: basta trovare una persona che ha di recente assunto un incarico che la espone a visibilità, spulciare su internet tutto ciò che si trova di lei (foto della cena di maturità, pensieri scritti su un blog ai tempi del liceo, racconti che la riguardano) e come primo atto pubblicare tutto, violando i suoi spazi. Si badi bene che questa è un'operazione assolutamente inutile ai fini dell'informazione, ma fondamentale per destabilizzare l'oggetto della mia attenzione: entrando nel suo spazio privato gli tolgo serenità, lo innervosisco e così è più probabile che cada in errore. Il secondo passo, poi, è quello più divertente: si tratta di trovare una foto "compromettente", o una notiziuola scabrosa, o una dichiarazione interpretabile, o una frase non perfettamente corretta e manipolarla ad arte per gettare discredito sulla mia vittima. Una volta fatto questo sono sicuro di poter contare sui soldati della diffamazione: messa in rete la notizia (vera o falsa che sia) sono certo che in poche ore sarà presa come oro colato e ritwittata da centinaja di persone ovunque, con la ciliegina dei commenti personali, possibilmente grossolani. Ed è così che posso facilmente trasformare chiunque di voi in un ladro, un nazista, o una prostituta.
Si badi bene, in questo caso la veridicità dell'informazione è assolutamente secondaria: ciò che conta è - come abbiamo visto - che mi aiuti a conseguire il risultato sperato, e cioé l'aumento degli introiti pubblicitari dovuti al traffico sul mio sito.

Nel recente caso di Chiara Colosimo abbiamo visto alla perfezione come funziona questa che sembra una vera e propria "macchina" nella quale ogni pezzo svolge la propria funzione per giungere all'obiettivo di rovinare una persona.
Non appena eletta capogruppo del PdL in Regione Lazio, Chiara Colosimo si è trovata tutte le fotografie che aveva su facebook sparate sul sito di Repubblica, in barba all'interesse che esse potevano suscitare nel lettore e soprattutto in barba alla riservatezza che avrebbero meritato. Per farvi capire, tra le foto è stata pubblicata anche l'immagine del sottoscritto con lei, senza che ci si peritasse in alcun modo di verificare chi io fossi, e che interesse potesse avere per la gente quell'immagine. Ecco il servizio.
Ma tant'è, è il primo passo per la diffamazione, come abbiamo detto.
Il secondo è arrivato dopo poche ore dalla nomina: ecco che spunta dal nulla un'intervista fatta da Mtv a Chiara quando era segretario giovanile della sezione della Giovane Italia Garbatella. In questa chiacchierata Chiara parla di fronte a un muro sul quale è rappresentato Corneliu Zelea Codreanu, il fondatore della "Guardia di Ferro", movimento politico rumeno di ispirazione fascista. La macchina è partita: la notizia viene rimbalzata e ampliata e se la Polverini non si fosse dimessa potete stare certi che Codreanu si sarebbe trasformato in breve in Adolf Hitler.
Ma non basta: nell'intervista l'ingenua Chiara ebbe la cattiva idea di raccontare come, prima di fare politica, il sabato pomeriggio si recasse a ballare al Gilda con le amiche. Calcolando che io Chiara fa politica da quando aveva 16 anni, e che da allora ha smesso i tacchi per infilare le scarpe da ginnastica e la felpa e andare ad attaccare manifesti, nel suo racconto parlava di quando a 15 anni che amava andare in discoteca di pomeriggio, fatto che solo i Boka Haram considerebbero degno di nota. Ma la macchina è inarrestabile: la rete si riempie di messaggi contro la "fascio-cubista", e in poche ore Chiaretta è trasformata in una sorta di Cicciolina de' noantri..

Ciò che di questa storia mi ha sconvolto è stato notare come tutto ciò nasca dalla malafede. Chi ha pubblicato la foto con l'immagine di Codreanu non si è neppure peritato di studiare la storia della Guardia di Ferro: addirittura "Pubblico", il nuovo giornale di Luca Telese, rinvia i propri lettori ad approfondire su wikipedia! Sono queste le fonti con cui si costruiscono le accuse!
Ancora più disgustoso è stato il modo in cui si è voluta sporcare la frase innocente sui pomeriggi in discoteca: era troppo ghiotta l'occasione di trovare una "Minetti" romana, dimostrando che nel PdL le donne sono tutte bonazze allegrone e sciocche, giunte al potere a furia di comportamenti su cui il lettore, a questo punto, starà già fantasticando da un bel pezzo.
Ed è così che tale Marta Arniani di Liquida Magazine è arrivata a titolare "Chiara Colosimo, il nuovo volto pdl tra lapdance e neonazi"  dimostrando come la verità non conti davvero nulla per un giornalista in cerca di visibilità. Fossi nella Colosimo ragionerei di sporgere querela contro questa vergognosa pennivendola da quattro soldi.

Chiara è una persona diversa. Oltre a non avere il fisico della Minetti (mi scuserà, ma le foto della recente sfilata della consigliera milanese rendono impietoso il confronto) è una persona pulita e onesta, che tira di boxe, veste in felpa e fuma il sigaro.
Con tutto l'impegno che ci può mettere, non basterà una Marta Arniani qualsiasi a farne qualcosa di differente.

venerdì 31 agosto 2012

Sfiorando il muro. Il trailer




Per la prima volta alla Mostra di Ve­nezia c'è una piccola, enorme no­vità: un film fuori concorso, «Sfiorando il muro», dedicato a due vittime missi­ne delle Brigate rosse, Giralucci e Maz­zola.

A Venezia il film "Sfiorando il muro"
Nel racconto pubblico quel capito­lo è stato cancellato, nonostante le nu­merose vittime. E finalmente si parla del dramma di quei bambini figli delle vittime occulta­te del terrorismo rosso, quelli di destra. Ma non si tratta di piantare rivendica­zioni storiche o cercare risarcimenti ideologico-morali, si pone invece una questione inerente all'arte e al cinema: quante storie grandi e tragiche, quanti personaggi straordinari il cinema non ci ha raccontato perché erano dalla par­te sbagliata. Pensate che grandi film, che grandi storie si potrebbero ricavare ad esem­pio da personaggi come Italo Balbo o il Principe Borghese, Bombacci, Durand de la Penne o il Duca d'Aosta, l'impresa fiumana o Codreanu in Romania. E che grandi film si potrebbero trarre dalla vi­ta di Ezra Pound e Céline, Junger e Mala­parte, D'Annunzio, Evola e Marinetti. E Così parlò Zarathustra , a cui fu dedica­ta solo una colonna sonora, non sareb­be un film grandioso? E la vita di Floren­skij che nel gulag fa scoperte scientifi­che, scrive capolavori e lettere sublimi e poi viene ucciso? Il cinema ha biso­gno di storie eroiche o controverse da raccontare. E invece veti e boicottaggi prevalgo­no sull'arte e mutilano la creatività. Non si tratta di lottizzare il cinema, ma dire ad autori e produttori, registi e atto­ri: cosa vi siete persi e cosa ci siamo per­si a tacere quelle storie proibite.

domenica 22 luglio 2012

Invito al viaggio.



Dietro ogni angolo si nasconde un viaggio. Ogni momento della vita potrebbe essere quello giusto per partire. Ovunque ci sia un popolo, un'identità e delle tradizioni legate ad un territorio è possibile esplorare un mondo. Sarebbe sbagliato cercare di stabilire quale sia il più bello o il migliore, sarebbe il primo passo verso una gerarchia di identità locali che non renderebbe giustizia alla nostra convinzione dell' “unità nella diversità”. Ciascuno ha il suo “cielo d'Irlanda”...

Il primo passo per un viaggiatore è capire che da quel posto è possibile imparare qualcosa, che dietro all'apparenza ci sono delle radici profonde che, assieme alle mie, contribuiscono a mantenere saldo il terreno della Tradizione, che non esistono solo i circuiti commerciali del turismo per i turisti ma esistono anche percorsi destinati ai viaggiatori.

Il concetto di percorso è molto semplice, quasi banale direi: esiste un punto di partenza ed un punto di arrivo, autentico o presunto che sia, il tragitto lo fissi tu. Ed è questa un'espressione di massima libertà in quanto ci si può affidare ad una persona oppure ci si può affidare a se stessi, alle proprie sensazioni. Il presupposto è sempre lo stesso: la fiducia. Bisogna partire, lasciando il proprio approdo sicuro, cercando un qualcosa che non si conosce, attraverso una strada ignota. Ed è grazie a questo vivere che si sviluppa tra noi e le persone di quel luogo quella fiducia che ci porta alla condivisione, al sentire comune, alla Comunità. Non di rado si parte per un motivo o per un obiettivo e si ritorna con una diversa consapevolezza, cresciuti, con un pezzo di vita in più.

La definizione di viaggiatore invece ci permette di dare una filosofia al movimento. Il semplice turista vuole solo soddisfare i propri bisogni contingenti, le ragioni principali (anzi, fondamentali) che lo hanno spinto a viaggiare. Il viaggiatore invece ha una concezione diversa: ha delle radici nella propria patria, sa chi è e chi sono i suoi padri ma in più ha la consapevolezza che oltre al suo muro di casa ci sono altre radici ed altre patrie di altri uomini come lui. E le vorrebbe conoscere. Quindi tra turista e viaggiatore ci sono due differenze: le motivazioni e la consapevolezza.

USCITE, VIAGGIATE, ESPLORATE, RIFLETTETE E CRESCETE !

Riscoprire le radici dell'Europa passa anche dalla condivisione di vita e di vissuti. A voi la scelta: essere turista o essere viaggiatore. Da questi piccoli gesti nasce la nostra risposta alla crisi ed al nulla che avanza: essere Comunità oggi più di ieri, domani più di oggi.


http://nellozainoliberta.blogspot.it/2012/07/invito-al-viaggio.html

lunedì 28 maggio 2012

Due giovani tibetani si sono dati fuoco per protesta a Lhasa

28 MAG - Due giovani tibetani si sono dati fuoco per protesta a Lhasa, la capitale della Regione autonoma del Tibet. Si tratta delle prime due 'auto immolazioni' a verificarsi nella capitale storica del Tibet. Negli ultimi 14 mesi altri 33 tibetani, in prevalenza giovani monaci buddhisti, si sono dati fuoco per protestare contro la repressione della Cina. I due giovani, uno dei quali e' morto, hanno compiuto il loro drammatico gesto davanti al Jokang, il tempio piu' importante di Lhasa.

venerdì 20 aprile 2012

Due tibetani si sono autoimmolati con il fuoco a Ngaba



Choephag Kyab e Sonam chiedevano la fine dell’occupazione cinese e il ritorno del Dalai Lama in Tibet. Di recente, poliziotti cinesi hanno infierito su un tibetano che si era appena dato fuoco. Segretario generale del Tibetan Youth Congress: “Una barbarie assoluta che alimenterà le nostre proteste”.


Dharamshala (AsiaNews/Agenzie) - Due tibetani si sono autoimmolati con il fuoco a Ngaba, nel Sichuan, chiedendo la fine dell'occupazione cinese in Tibet e il ritorno del Dalai Lama. Secondo fonti del governo tibetano in esilio, il fatto è avvenuto ieri intorno all'una (ora locale). Nessuna notizia certa sulle loro condizioni. I due avrebbero 20 anni e sono stati identificati come Choephag Kyab e Sonam.

In una dichiarazione di pochi giorni fa, il Dalai Lama ha chiesto alle autorità cinesi di interrogarsi sulle "cause reali" delle autoimmolazioni in Tibet. Il leader spirituale dei buddisti tibetani ha già più volte invitato i religiosi a evitare gesti estremi, aggiungendo tuttavia di non poter condannare chi si lascia prendere dallo sconforto.

Di recente, un video ha mostrato alcuni poliziotti cinesi picchiare e accanirsi su un tibetano che si era appena autoimmolato, mentre il suo corpo era ancora avvolto dalle fiamme. Intervistato dal Phayul, Tenzin Chokyi, segretario generale del Tibetan Youth Congress,afferma che  la "barbarie assoluta" mostrata dalle autorità di Pechino "alimenterà solo più risentimento e protesta" contro il regime.

"Assistere al loro sacrificio - aggiunge Chokyi - rinforza la nostra determinazione a lavorare per un Tibet libero".

Con il gesto di ieri salgono a 35 i tibetani che si sono autoimmolati per criticare la dittatura di Pechino e chiedere il ritorno del Dalai Lama in Tibet.

Fonte: Asianews.it

domenica 15 aprile 2012

venerdì 13 aprile 2012

La cosa più imperdonabile della Costituzione ungherese. (di Marcello Veneziani)

di Marcello Veneziani

«Ecco avanzare in Ungheria lo spettro della reazione... sotto l’egida del clericalismo conservatore con l’intento di tornare al passato, annullando lademocrazia e la libertà». È impressionante notare che le stesse parole usate oggi in Europa per condannare la nuova Costituzione ungherese, rea di difendere la tradizione, la famiglia e la sovranità nazionale e popolare rispetto al potere delle banche, siano state adoperate dal compagno Sandro Pertini per sostenere nel 1956 l’invasione dei carri armati sovietici in Ungheria.

Le tesi di Pertini collimavano con le tesi del Pci, anche nella sua ala moderata. Il compagno Giorgio Napolitano, ad esempio, scriveva che l’azione sovietica in Ungheria evitava «che nel cuore dell’Europa si creasse un focolaio di provocazioni» e benediceva l’intervento sovietico per impedire che l’Ungheria cadesse «nel caos e nella controrivoluzione», così contribuendo «in maniera decisiva, non già a difendere gli interessi militari e strategici dell’Urss ma a salvare la pace nel mondo». I carri armati e la repressione sanguinosa del popolo ungherese, in nome della pace... Se al posto dei carri armati dell’Urss mettete i carri finanziari della Ue, le parole del 1956 ritornano nel nostro presente. Certo, la dominazione euro-finanziaria è incruenta; lo spread non uccide, anche se talvolta induce al suicidio.

Sto parlando di due cose diverse ma analoghe. Le citazioni dei due presidenti della Repubblica quando erano esponenti del Psi e del Pci, sono tratte da Budapest 1956. La macchina del fango di Alessandro Frigerio uscito in questi giorni da Lindau, con prefazione di Paolo Mieli (pagg. 250, euro 21). Il libro ripercorre la vergognosa posizione dei comunisti italiani in favore dell’invasione militare sovietica e della brutale repressione. E racconta «lamacchina del fango» (ma quella vera, originale) della disinformazione filo-sovietica ad opera di intellettuali, stampa ed esponenti della sinistra. Furono in pochi a sottrarsi: onore a Giolitti e a quel rustico galantuomo di Peppino Di Vittorio, o a quei militanti che uscirono dal Partito. Tra i socialisti ci fu una corrente filocomunista, detta dei «carristi», perché favorevoli ai carri armati: Pertini si era già segnalato tre anni prima per le sperticate lodi a Stalin nel giorno della sua morte. Passato sepolto, per carità.

Ma quel che inquieta è che la rivolta degli ungheresi contro il regime comunista fu bollata all’epoca con gli stessi epiteti con cui oggi si marchia a fuoco la nuova Costituzione ungherese, votata dal 70% del Parlamento, liberamente e democraticamente eletto nel 2010. Una Costituzione che cancella quella comunista e filosovietica del 1949. Ma gli eurocrati e i loro alleati politici, intellettuali, tecno-finanziari, preferivano quella precedente.

Sulla nuova costituzione ungherese è stata allestita una disinformazione che somiglia a quella filosovietica del ’56. Cosa scandalizza gli europei di quel testo e perché solo agli ungheresi è proibito riconoscersi nel patriottismo della loro Costituzione? Dio entra nella Costituzione, dicono indignati e allarmati. Vorrei ricordare che Dio è già entrato da due secoli e mezzo nellaCostituzione americana e non ha mai fatto danni alla libertà e allademocrazia. Il riferimento alla «grazia di Dio e alla volontà della nazione» era anche la formula dell’Italia libera e unita nata dal Risorgimento. Perché «Dio salvi la regina» britannica va bene e invece non va bene «Dio salvi l’ungherese», molto più democratico perché estende la benedizione a tutto il popolo? La Costituzione ungherese non impone poi una professione di fede ma riconosce al cristianesimo «il ruolo avuto nel conservare l’integrità dellanazione». Un riferimento storico, non confessionale. Che avrebbe dovuto fare anche l’Europa in tema di radici nella sua Costituzione. Ma la Carta ungherese sottolinea, e nessuno lo ricorda, «il rispetto per le varie tradizioni religiose».

Alla Costituzione magiara non perdonano poi il riconoscimento della famiglia come base della nazione, bene da tutelare, incoraggiando ad avere figli e concependola formata da un uomo e una donna, come del resto ogni civiltà ha inteso finora nella storia del mondo. Non c’è divieto di altre unioni, c’è lapromozione della famiglia. Un altro suo imperdonabile peccato è il riconoscimento del diritto alla vita e alla dignità umana, la protezione dell’embrione e del feto sin dal concepimento, il rigetto delle pratiche di eugenetica, dell’uso del corpo a scopo di lucro, la proibizione della clonazione, oltre alla difesa di donne, bambini, anziani e disabili.Si può condividere o meno quest’impianto ma non c’è nulla di criminale o disumano, illiberale o antidemocratico.

Ma la cosa più imperdonabile è un’altra: la Costituzione ungherese subordina la Banca Centrale all’interesse nazionale e impone ai suoi vertici di giurare fedeltà all’Ungheria (e il governo ha messo l’imposta speciale sui profitti delle banche). Questa, per gli eurocrati, è la colpa principale e il motivo ultimo per cui vogliono staccare l’ossigeno a giugno all’Ungheria del conservatore Orban. Il proposito indigna perfino il Wall Street Journal che ha denunciato la discriminazione nei confronti dell’Ungheria e il ricatto di negarle i fondi europei assegnati ad altri Paesi.

La disinformazione denuncia poi minacce ungheresi alla libertà di stampa: in realtà è previsto l’obbligo di rivelare le fonti quando è in pericolo la sicurezza nazionale, si prevedono multe, non chiusure o carcerazioni. E si tutela il made in Ungheria, stabilendo ad esempio per le radio di trasmettere almeno il 40 per cento di musica ungherese. (Norme proposte anche dalla sinistra europea per difenderci dall’americanizzazione).

Certo, può non piacere il tono patriottico e l’enfasi religiosa della Costituzione e non mancano aspetti non condivisibili: ad esempio, per colpire il ruolo invasivo della magistratura, si prevedono inaccettabili invasioni inverse, del potere esecutivo sul potere giudiziario. Ma ritenere che un Paese sia eversivo perché tutela la famiglia, latradizione e la sovranità nazionale e popolare, è roba degna della macchina del fango filosovietica del ’56. Anche se i carri armati oggi si chiamano banche.

mercoledì 11 aprile 2012

10 Domande all'Iran. Intervista a Radio IRIB


Clicca sul link per ascoltare l'intervista






Strage di Bologna. L'ora della verità!


Sono più di due anni che Carlos chiede incessantemente di parlare con la magistratura italiana, per rivelare la verità sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980 e anche “di altre stragi”.  Ma i nostri pubblici ministeri non sembrano avere tempo per la delicata questione: saranno forse troppo impegnati negli scandali dei nostri politici!?

Carlos pronto a parlare: “Tutta la verità sulla strage del 2 agosto”

Bologna, 6 aprile 2012 - CARLOS lo Sciacallo torna a farsi vivo. E lancia un messaggio forte: «Sono pronto a dire tutto ciò che so per trovare i veri responsabili della strage del 2 agosto». Ilich Ramirez Sanchez, 62 anni, venezuelano, il terrorista più famoso del mondo, è attualmente detenuto nel carcere di massima sicurezza di Poissy, a Parigi, e proprio da lì ha mandato due lettere a un avvocato bolognese, Gabriele Bordoni, per nominarlo quale difensore di fiducia ed esprimere la propria posizione sulla bomba alla stazione e non solo.Sulla strage la Procura ha da tempo aperto un fascicolo bis e, di recente, c’è stata una svolta clamorosa. Il pm Enrico Cieri ha infatti indagato i due terroristi di sinistra Christa Margot Frolich e Thomas Kram, tedeschi, entrambi ex membri del gruppo di Carlos. Si tratta della cosiddetta ‘pista palestinese’, per la quale la bomba fu la punizione dei palestinesi all’Italia che aveva violato il ‘lodo Moro’. Per la strage, va ricordato, la magistratura ha invece condannato in via definitiva i terroristi ‘neri’ Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini.
Carlos, dal canto suo, ha un’idea diversa. Per lui furono la Cia e il Mossad, ma non ha mai voluto fornire prove.

QUANDO Cieri è andato a interrogarlo, anni fa, si è fermato subito: «Voglio parlare davanti a una commissione d’inchiesta in Italia». Ora fa molti passi avanti: si dice pronto a parlare ai magistrati e a dire tutto ciò che sa, chiedendo di essere trasferito in Italia (di recente, peraltro, la giustizia francese l’ha condannato per uno dei numerosi attentati di cui è accusato).

Scrive lo Sciacallo, in inglese:

«Egregio signore, ho appena ricevuto la sua lettera del 12 marzo scorso. Vorrei aiutarla ad eliminare gli ostacoli al fine di trovare i veri responsabili dell’attacco terroristico di Bologna. Sono inoltre pronto a rilasciare dichiarazioni sotto giuramento alla magistratura italiana competente».
Non si ferma solo alla strage di Bologna, Carlos, ma promette rivelazioni su altre stragi: «Tuttavia — continua —, dovremo incontrarci qui di persona non appena possibile al fine di preparare il miglior approccio tecnico per smantellare il muro di bugie che hanno bloccato la verità degli anni di sanguinari massacri di civili innocenti avvenuti in Italia. Qui le allego una lettera in francese, designandola come mio avvocato difensore per tutte le mie faccende in Francia… per prevenire ogni conflitto che potrebbero impedire la sua difesa degli interessi della famiglia Signorelli».

Paolo Signorelli, morto nel 2010, ideologo ‘nero’ accusato e poi scagionato per la strage, era assistito proprio da Bordoni. Conclude Carlos: «Ci faccia sapere con largo anticipo la data della sua visita». Poi la firma: «Vostro nella Rivoluzione, Carlos». L’altra lettera, in francese, è la designazione ufficiale dell’avvocato bolognese.

BORDONI sta già studiando le prossime mosse: «Carlos già nel settembre 2010 mi fece arrivare un messaggio, tramite il collega Sandro Clementi, dopo aver letto un articolo del Carlino. L’intenzione mia è da tempo quella di andarlo a sentire in Francia. L’ho chiesto alla Procura, ma il pm ha ritenuto non fosse utile. Mi sono rivolto inutilmente al magistrato di collegamento italo-francese e al nostro ministero. Per questo alla fine l’unica strada era quella della nomina. Domani (oggi; ndr) tornerò dal pm e gli chiederò di andare insieme a Parigi, visto che Carlos dice di avere nuovi elementi e di volerli rivelare. In caso negativo, ci andrò io e raccoglierò le sue indicazioni». La parola, ora, passa alla Procura.

di Gilberto Dondi

Fonte: Il resto del Carlino

lunedì 26 marzo 2012

Tibetano si auto-immola davanti al parlamento. Siamo all'altezza di questa battaglia?


A volte viene da chiedersi: siamo all'altezza di questa battaglia?

New Delhi ( AsiaNews) - Un giovane attivista tibetano si è auto immolato questa mattina a New Dheli, davanti al parlamento indiano. Il rogo è avvenuto durante una protesta di oltre 600 esuli contro la visita in India di Hu Jintao, presidente cinese, in programma nei prossimi giorni. Ciampa Yeshi, 26 anni, è ora ricoverato in ospedale in condizioni critiche. Le ustioni coprono l'85% del suo corpo. Egli è il secondo tibetano a darsi fuoco in India. L'uomo era fuggito dal Tibet cinque anni fa e viveva nella periferia di New Delhi. Per i prossimi giorni le autorità prevedono nuove e più violente manifestazioni. Oggi la polizia ha circondato la villa dove avverranno gli incontri fra Hu Jintao e le autorità indiane.

Negli ultimi mesi decine di giovani tibetani, monaci e laici, hanno scelto l'autoimmolazione per chiedere la fine della repressione di Pechino e il ritorno del Dalai Lama in Tibet. Nonostante, le numerose proteste e i continui appelli di organizzazioni e Paesi stranieri, la polizia cinese continua ad arrestare e a sequestrare chiunque manifesti dissenso.

Il 23 marzo scorso gli agenti hanno fatto irruzione nel monastero di Bora (Sangchu, Regione autonoma del Tibet), prelevando quattro monaci: Sangyal Gyatso, 30 anni; Kelsang Lodoe 23 anni; Sonam aged 20 anni: Tashi Gyatso 22 anni. La polizia non ha ancora comunicato alle famiglie il luogo di detenzione. 

Lo scorso 20 marzo essi avevano partecipato a una grande manifestazione per il ritorno del Dalai Lama, il diritto alla libertà religiosa e all'insegnamento della lingua tibetana. Poco dopo le proteste, gli agenti hanno fermato oltre 40 persone, che sono state rilasciate dopo diverse ore grazie alla mediazione di Gyal Khenpo, ex  abate del monastero di Labrang Tashikyil (prefettura di Kanlho, Gansu). (N.C.)

lunedì 19 marzo 2012

Cina: oltre 2000 tibetani in strada


(ANSA) - SHANGHAI, 19 MAR - Oltre 2000 persone sono scese ieri e oggi in strada a Malho, nel Tibet Orientale, brandendo bandiere tibetane, protestando per l'occupazione cinese del Tibet e chiedendo il ritorno del Dalai Lama. Lo riferiscono fonti di organizzazioni che si battono per la causa tibetana. Dalle 7.30 di ieri i manifestanti hanno occupato le strade dopo che ieri oltre 8.000 tibetani a Rebkong hanno reso omaggio alla salma di Sonam Dhargey, l'agricoltore che si e' dato fuoco sabato.

martedì 6 marzo 2012

Giovane tibetano si autoimmola, terza vittima in pochi giorni


Un giovane poco più che maggiorenne è il terzo tibetano a darsi fuoco questa settimana in Cina, per protesta contro il dominio di Pechino nel Tibet. TIBET CINA self immolation ok Giovane tibetano si autoimmola, terza vittima in pochi giorni Lo affermano fonti di un gruppo attivista in esilio, mentre il governo di Pechino ha rafforzato ulteriormente le misure di sicurezza in vista dell’imminente anniversario della rivolta del 2008. Solo lo scorso anno oltre 20 tibetani - in grande maggioranza monaci - si sono auto-immolati nella loro battaglia a difesa dei diritti umani, una maggiore autonomia e piena libertà religiosa. Le ultime vittime ufficiali sono emerse ieri: una madre, vedova e con quattro figli e una ragazza tra i 16 e i 19 anni nel Gansu. In un comunicato diffuso da Free Tibet and International Campaign for Tibet, un ragazzo di 18 anni - conosciuto con il nome di Dorjee - nel pomeriggio di ieri avrebbe intonato slogan anti-cinesi davanti a un ufficio governativo della prefettura di Aba, nella provincia del Sichuan. Egli sarebbe morto sul posto e solo in un secondo momento sono intervenuti gli addetti alla sicurezza, per rimuovere il cadavere. La polizia di Aba, che ospita una grande comunità tibetana ed è divenuto uno dei luoghi simbolo della protesta, non ha voluto rilasciare commenti o fornire conferme sulla vicenda. Attivisti per i diritti umani affermano che l’escalation nelle auto-immolazioni - un fenomeno recente nella protesta tibetana anti-cinese - è sintomo della crescente disperazione fra gli esponenti della minoranza etnica, che ha cercato di contendere (invano) il primato di Pechino nella regione Himalayana. Dal marzo 2008, all’indomani della rivolta di Lhasa repressa nel sangue dalla polizia, il governo cinese ha rafforzato le misure di sicurezza nell’area e il controllo delle attività di monasteri e monaci, per evitare che la protesta si espandesse ad altre zone del Paese. La Cina nega di attuare una repressione e aggiunge che, ora, i tibetani vivono una vita migliore grazie ai corposi investimenti e alle infrastrutture realizzate da Pechino. Tuttavia, negli ultimi mesi la tensione è cresciuta sempre più, tanto che la parte occidentale della provincia del Sichuan, confinante con la regione tibetana, ha registrato un continuo aumento di rivolte e immolazioni.

Asianews.it