sabato 31 dicembre 2011

Tremaglia e i paradossi del fascista duro e puro



Fu a Salò, nell’Msi e in An, ma poi seguì Fini. Uomo d’azione, il suo "capolavoro" fu il figlio intellettuale

È morto ieri, a 85 anni, Mirko Tremaglia. Ex ragazzo di Salò, esponente del Msi, poi di An, aveva seguito Gianfranco Fini in Futuro e libertà. Nato a Bergamo nel 1926, laureato in Giurisprudenza, avvocato, è stato deputato in 11 legislature.

Ministro degli Italiani nel mondo, sua è la legge che ha riconosciuto il diritto di voto degli italiani residenti all’estero. I funerali saranno celebrati lunedì 2 gennaio a Bergamo.

Sì, è morto l’ultimo fascista dichiarato e non pentito che sedeva in Parlamento. Mirko Tremaglia, vecchio leone, fascista indomito, per dirla nel suo linguaggio da combattente e camerata. Espansivo ed estroverso, ricco di umanità, non sembrava ai miei occhi terronici un bergamasco. Di lui molti ammiravano la coerenza e altrettanti deploravano la testardaggine. Ma dietro la fedeltà al Duce, Tremaglia viaggiò molto dal suo fascismo rivoluzionario della gioventù; lasciò le originarie posizioni sociali da fascismo di Salò, Corporativismo&Socializzazione, per sposare un fascismo d’ordine, giustizialista e filoamericano. Fu fascista ma non di quelli crepuscolari o catacombali; sapeva farsi valere anche da missino, intrecciava relazioni politiche e rapporti personali anche con avversari e uomini delle istituzioni. Fu tra i primi sponsor di Di Pietro, Cossiga e Mani pulite. Fu fascista di Salò ma accettò le cure termali di Fiuggi e aderì ad Alleanza Nazionale. Fu fascista repubblicano ma sostenne Israele e i falchi americani. Patì la perdita di suo figlio Marzio ma anche il suo prestigio, che oscurava quello di suo padre. Quella morte prematura lo invecchiò di colpo, e per anni visse nel ricordo di lui, con una teatralità del dolore tipica delle culture siculomediterranee. Ricordo una grandiosa manifestazione a Bergamo, stracolma di gente, in cui parlammo di Marzio, con Fassino, Fini e Cardini. Per lungo tempo lui portò il suo dolore paterno, genuino e plateale, in processione per l’Italia e in ogni occasione.Ricordo un suo pianto anche in una manifestazione al Vittoriano da Ministro per gli italiani all’estero.

Sanguigno e tuonante, incline al fascismo duro e puro e al pianto tenero e sentimentale, la parabola politica ed esistenziale di Tremaglia è segnata da tre paradossi. Fu Irriducibile fascista, militante fedele del fascismo di Salò, del vecchio Msi e poi di An, ma alla fine seguì il becchino di tutti e tre, Fini, aderendo a Futuro e Libertà; lui che era tutto Nostalgia e Autorità. Secondo paradosso: spese una vita per gli italiani all’estero, si prodigò per loro, fondò i comitati tricolore e volle la legge che consentiva il voto ai nostri emigrati; pensava a un trionfo ma la sua lista ottenne un solo seggio su 18 e grazie alla sua legge il governo Prodi ebbe la maggioranza assoluta in Senato. Terzo paradosso: era un fascista d’azione, diffidente verso le elucubrazioni degli intellettuali e il culturame, ma il destino gli giocò uno scherzo feroce e benedetto: suo figlio Marzio tradì il cliché del fascista attivista, fu un raffinato intellettuale prestato alla politica, gran promotore di idee e assessore lombardo alla cultura. Anzi «il miglior assessore alla cultura d’Italia » disse una volta Walter Veltroni, e non lo disse in un elogio funebre, ma quando Marzio era ancora assessore in carica (lo disse anche a me, ricordo, eravamo a Parigi e lui era ministro dei Beni culturali). In fondo, la più grande eredità di Mirko è morta prima di lui: è Marzio, suo figlio, politico colto e illuminato.


I saluti romani sono fuori luogo, fuori tempo e fuori legge ma consentite almeno l’estremo saluto romano per i fascisti morenti, unito al congedo che lui avrebbe voluto: camerata Mirko Tremaglia presente.

di Marcello Veneziani - 31 dicembre 2011, 10:56

martedì 27 dicembre 2011

La Cina è vicina...


Sichuan, Chen Wei, attivista di Tiananmen e della “rivoluzione dei gelsomini”, condannato a 9 anni
È una delle sentenze più pesanti in questi ultimi anni. Le accuse di “sovversione” si basano su alcuni articoli pubblicati su internet – e molto diffusi – in cui si propone la democrazia come una strada migliore della dittatura del Partito comunista cinese. Chen “è recidivo”: attivo ai tempi di Tiananmen, ha scontato già diversi anni di prigione ed è uno dei leader del movimento democratico nel Sichuan. Un percorso simile a quello di Liu Xiaobo, premio Nobel 2010.

Pechino (AsiaNews/Chrd) – Chen Wei, un veterano attivista della democrazia in Cina, è stato condannato oggi a 9 anni di prigione e a due anni di privazione dei suoi diritti da un tribunale di Suining (Sichuan). Chen Wei è stato accusato di “incitamento a sovvertire il potere dello Stato”, per aver pubblicato su internet alcuni suoi articoli inneggianti alla democrazia e alla “rivoluzione dei gelsomini”. La sentenza contro di lui è fra le più pesanti comminate un attivista in questi ultimi anni.

Liang Xiaojun, uno degli avvocati di Chen, ha commentato la sentenza dicendo che “il verdetto era predeterminato”. Chen Wei non ha potuto nemmeno fare alcuna dichiarazione: è stato subito trascinato via dalla corte e ha solo potuto gridare: “Non sono colpevole! La democrazia costituzionale vincerà! La dittatura sarà sconfitta!”.

Nella lista delle accuse, il procuratore di Suning mostra alcune “prove” dei tentativi di sovversione ad opera di Chen. Esse sono quattro articoli scritti fra marzo 2009 e gennaio 2011: “La malattia del sistema e la medicina della democrazia costituzionale”; “La chiave per democratizzare la Cina e la crescita dell’opposizione civile”; “I piedi del movimento per la difesa dei diritti e la testa per un movimento della democrazia costituzionale”; “Pensieri sul digiuno nella giornata per i diritti umani”.
L’accusa cita anche frasi specifiche come “prove” di “diffamazione” verso il governo cinese: “la gente è stata derubata del proprio pensiero e fede”; “il Partito comunista cinese (Pcc) usa lo strumento della violenza per controllare il popolo”; il Pcc è “nemico della democrazia”; eccc..

Come “prova” dell’incitamento alla “sovversione”, l’accusa cita la frase “questo sistema va cambiato”; oppure: “occorre usare le proteste di piazza per diffondere la politica fra la gente”. Il procuratore ha tentato di mostrare che poiché gli articoli di Chen sono stati linkati e diffusi in molte pagine web, essi hanno avuto “un brutto effetto”. E ha convinto i giudici – se ce n’era bisogno - che siccome in passato Chen Wei è stato condannato per “attività controrivoluzionarie” (ai tempi di Tiananmen), la sentenza doveva essere pesante perché egli è recidivo.

Il processo, le accuse e la condanna ricordano da vicino quanto accaduto a Liu Xiaobo, il premio Nobel per la pace 2010, condannato a 11 anni di prigione per alcuni articoli diffusi su internet.

Almeno 200 poliziotti hanno bloccato le strade attorno al tribunale, vietando l’ingresso ad amici e altri attivisti. Un gruppo di loro, fra cui Duan Qixian e Zhang Wei, entrambi dal Guangxi, sono stati trattenuti dalla polizia.

Chen è stato arrestato lo scorso 20 febbraio, durante alcuni timidi tentativi di innescare in Cina una “rivoluzione dei gelsomini” simile a quella dei Paesi arabi. Solo il 28 marzo egli è stato formalmente accusato di “sovversione” e trattenuto nella prigione municipale di Suining. Il suo avvocato ha potuto incontrarlo solo tre volte prima del processo.

Chen Wei, 42 anni, è nato a Suning. Nel 1989, come studente dell’Istituto di tecnologia di Pechino, egli ha partecipato alle proteste di piazza Tiananmen ed è stato condannato e rinchiuso nella prigione di Qincheng. Nel maggio 1992 è stato rilasciato, ma circa un anno e mezzo dopo egli è stato di nuovo arrestato per aver tentato di commemorare i morti di Tiananmen. Per questo è stato condannato a cinque anni di carcere. Negli ultimi anni Che Wei è divenuto unod ei leader del movimento democratico nel Sichuan.

Asianews.it

domenica 18 dicembre 2011

Eos 2012



"Il meraviglioso non suscita in noi nessuna sorpresa, perché il meraviglioso è ciò con cui abbiamo la più profonda confidenza. La felicità che la sua vista ci procura sta propriamente nel fatto di veder confermata la verità dei nostri sogni" (Ernst Jünger).

Mercoledì 21 Dicembre - ore 19.00
Salutiamo il nuovo sole
Solstizio d’inverno, Natale, Capodanno… Tutto in questo periodo dell’anno porta con sé il marchio del cambiamento. Anche il mese che arriva, gennaio, primo di dodici, alla mezzanotte del 31 dicembre riceve il testimone dal vecchio e rinasce come nuovo. Non a caso prende nome da Ianus, il dio romano Giano che presiede agli inizi, alle porte e ai passaggi. Quelli materiali come quelli immateriali. Anche l’inizio di una nuova impresa è votato a Giano. Anche un’impresa economica…
Racconta una leggenda che Giano ricevette da Saturno (grato per l’ospitalità ricevuta) il dono di vedere sia il passato che il futuro. E per questo la tradizione lo raffigura come Giano Bifronte.
Questo, per tutti noi, è un tempo di passaggio per molti motivi che vanno al di là della semplice osservazione del calendario. Uno su tutti: siamo passati dal governo della politica a quello delle banche. E non è un cambiamento da poco, visto che questa minaccia toglieva il sonno a molti già quasi un secolo fa (do you remember the «complotto demoplutogiudaico»?) e si è realizzata al di là delle più fantasiose previsioni dei complottisti più stralunati.
Nel 1997 Giano Accame (nomen omen) scrisse un libro dal titolo Il potere del denaro svuota le democrazie. Mai titolo fu più perfetto presagio di accadimenti incombenti… D’altra parte, già allora Giano scriveva che (con il governo “tecnico” presieduto da Carlo Azeglio Ciampi) le sinistre avevano «messo negli anni Novanta il Paese nelle mani dei banchieri che vediamo adesso che razza di imbecilli sono».
Oggi sembra essere tornati a quel punto, ma purtroppo non è così: è molto peggio, perché la brillante soluzione tecnocratica non colpisce solo l’Italia ma anche altre nazioni europee e l’attacco alla politica è infinitamente più massiccio e pervasivo. Negli anni Novanta era un fatto sostanzialmente italiano, oggi è globale a causa della crisi scatenata proprio da quegli stessi «imbecilli»…
Temevamo un futuro governato dagli squali della finanza e avevamo immaginato quel mondo cupo con romanzi e film. Ora che quel futuro ci ha raggiunti sentiamo il peso di un potere enorme e apparentemente invincibile. Ma in nome di Giano (quello divino e quello umano che abbiamo conosciuto e amato), dobbiamo guardare agli insegnamenti del passato per dare al futuro una prospettiva nuova.
Non c’è notte tanto lunga che possa impedire al sole di risorgere.
Dipende da noi e solo da noi.

di Gabriele Marconi

E di tutto il sogno tu sei la sola cosa concreta che mi resta


 “…E di tutto il sogno tu sei la sola cosa concreta che mi resta” dice Corto Maltese a un merlo, al termine di una sua avventura onirica. “La vita è un sogno, o i sogni aiutano a vivere meglio?” chiedeva invece il leggendario Marzullo. E la domanda è meno stupida di quanto si pensi: la vita è un sogno? Lo credevano gli uomini di altre civiltà e di altri tempi, non ancora legati in maniera esasperata alla materia, che questo mondo con le sue intricate vicende fosse solo l’immenso sogno di un sognatore eterno. I sogni aiutano a vivere meglio? Probabilmente, tanto che a questi sogni alcuni uomini si sono dedicati così tanto da sacrificare tutta la propria vita per farli propri. È dunque questa vita terrena l’illusione da cui è necessario affrancarsi attraverso una disciplina durissima o forse ciò che è oltre l’immediato dei sensi non è altro che cibo per menti febbrili e portate ad estraniarsi dalla realtà, per sfuggire a una vita non abbastanza appagante (foss’anche la vita di un principe di razza guerriera, come quella di colui che diventò il Buddha)?

L’incipit di Ludi africani di Ernst Jünger è significativo, a riguardo: “Alla fine, soltanto l’immaginazione ci pare l’unica realtà e la vita di tutti i giorni un sogno, nel quale ci muoviamo svogliati, come un attore turbato dal suo ruolo. È allora il momento in cui il crescente disgusto fa appello alla ragione e le pone il compito di cercare una via d’uscita”; e la via d’uscita può trovarsi nella fuga giovanile di uno spirito irrequieto verso l’Africa, passando attraverso l’arruolamento nella Legione straniera per puro gusto di avventura e scoperta, come, per coloro che momentaneamente si rassegnano alla normale vita borghese, alla lettura di un libro come quello.

O forse il sogno lo si può cercare nella solitudine, e un periglioso viaggio lo si può affrontare su un piano diverso da quello materiale: così fece il creatore della teosofia orientale (una sintesi di Islam sciita, platonismo e mazdeismo) Sohrawardi, il quale descrisse accuratamente le sue peregrinazioni che, dal riportare coordinate precise dei luoghi che stava attraversando, cominciarono a confondersi come in una tempesta di sabbia e sconfinare nel regno metafisico che l’orientalista francese Henry Corbin chiamò mundus imaginalis: un mondo concreto, ma fatto di spirito, al quale si sarebbe potuti (o si potrebbe) accedere risvegliando le facoltà “immaginali” dell’essere umano; non l’immaginazione come fantasia, così come concepita dall’uomo moderno, ma una capacità di “immaginare” infinitamente più potente e concreta. Immaginare ciò che esiste realmente su un altro piano dell’Essere.

E così anche l’asceta buddhista Milarepa, che pur di realizzare la sua vera essenza spezzando i vincoli che lo tenevano legato a questo mondo si isolò in una grotta tra le montagne dell’Himalaya, in solitudine e astinenza da qualsiasi forma di piacere o turbamento. Davvero Milarepa fu solo un pazzo? Davvero distrusse la sua stessa vita quando avrebbe potuto darsi alla baldoria, o forse la baldoria è effimera e volgare e la vita vera l’ha invece conquistata?

Un caso moderno (e letterario) è infine quello di Darrell Standing, il protagonista del bellissimo romanzo Il vagabondo delle stelle” di Jack London: un uomo che, rinchiuso in un carcere, finito in un isolamento durissimo e sottoposto per innumerevoli volte alla tortura della camicia di forza che avrebbe condotto chiunque altro alla pazzia, trova una via per sfuggire a quella terribile condizione di prigionia, dolore e sudiciume. Assumendo il totale controllo del suo corpo fino a farlo temporaneamente morire riesce e a rivivere le sue vite passate, e quelle lunghissime ore nella camicia di forza saranno per lui secoli di incredibili avventure riportate alla luce, nell’oscurità, anche morale, di un carcere. Un po’ come la casa dorata di Samarcanda, la prigione in cui fu rinchiuso Rasputin, il compagno di avventure di Corto Maltese: il nome deriva dal fatto che “l’unica maniera di evadere da quella sono i sogni dorati provocati dall’hashish”.

Voglia di una vita (fisica o metafisica che sia) più intensa? malsana alienazione? fantasie per gente poco “pratica”? dovremmo pensare solo al nostro interesse “qui e ora”? Forse, azzardando una citazione, viene in nostro aiuto Mussolini: “E’ la fede che muove le montagne, perché dà l’illusione che le montagne si muovano: l’illusione, questa è forse l’unica realtà della vita”. Già, l’illusione è l’unica realtà della vita. Difficile catturare il senso di quest’espressione profonda ma sfuggente; tuttavia lascia intravedere qualcosa, come un oscuro senso di verità. Ma per entrare in una visione più tradizionalistica, riprendiamo una frase di Baader (citata da Jünger in Avvicinamenti): “Nessuno tra i grandi naturalisti ha negato che sia vero che ogni tratto spirituale abbia il suo simbolo quaggiù e che quindi l’intera natura stia davanti ai nostri occhi come un geroglifico”. Come dire che qualcosa sta dietro il tutto, e che squarciato il velo quel mistero si mostra nudo alla nostra vista; ma ai nostri occhi ancora troppo umani tutto è un simbolo, o un simbolo di un simbolo, ed è un dono raro saperlo mostrare come tale: è la storia degli spiriti più profondi, da Dante a Blake a Pound. Da parte nostra possiamo dire che tutto ciò che è “normale” è volgare, e in qualche modo, come il giovane Jünger, bisognerà trovare una via d’uscita. Che sia nel cavalcare la tigre della libertà e nell’asprezza sotto un torrido sole dei tropici o nel decifrare finalmente il linguaggio segreto dell’Essere.

Alberto Lodi

sabato 17 dicembre 2011

Una fiaccola per affrontare il buio


Questo non è un cucù come gli altri ma è un appello rivolto a tutti e riservato a pochi.
Nasce da una storia dolorosa. Carmelo I. - mi hanno detto di scrivere il suo cognome ma sento di rispettare la soglia- ha militato da ragazzo nel Fronte della gioventù.
Da adulto,ancora giovane, ha scoperto un cancro e ora è al terzo ciclo di chemioterapia. Ha chiesto agli amici, che in quel tempo si chiamavano in altro modo, di avere con sé, nell' estrema avventura, la bandiera dei suoi vent'anni, il tricolore con la fiaccola del Fronte al centro. I suoi amici non riescono a trovarla, l'hanno chiesto anche a me che fino a 17 anni militai nel Fronte, capeggiando una sezione. Realizzai con un archetto l'unica manifattura della mia vita, lo stampo di una fiaccola per riprodurne la sagoma sui muri. Era bella la fiaccola ed era fiera la mano che l'impugnava. Ho pensato allora di rivolgere un appello. Sono tanti i ragazzi passati da quella militanza, me ne accorsi una volta che parlai del loro sogno tradito dal leader. Allora chiedo a tutti loro e ai fondatori del Fronte, Massimo Anderson e Pietro Cerullo che guidava la Giovane Italia: se avete una bandiera con la fiaccola contattate chille_s@camera.it . Confesso che mi ha colpito questa richiesta, non solo per la tragedia ma anche per la tenera fedeltà ai propri vent'anni e per la voglia di dedicare la propria vita, anzi di avvolgerla nel simbolo di un ideale di gioventù che resta il segno di nobiltà e di passione pubblica in un'epoca privata d'ambedue. Una fiaccola per affrontare il buio.

Marcello Veneziani

La Bandiera poi è stata trovata, verrà consegnata a Carmelo, la porterà nel cuore, perchè il valore di una vita vissuta alla luce del sole guardando in faccia il destino, vale mille bandiere issate al vento.

venerdì 16 dicembre 2011

Sono un complottista


Sono complottista. O almeno così dicono. Lo sono perché secondo alcuni ho un modo semplicistico di vedere la complessità delle cose che, ovviamente, devono rimanere complesse apposta perché nessuno le veda. Se fosse per me direi che sono complottista non per convinzione ma per convenzione; come quel professore di liceo degli anni ’70 a cui davano del fascista solo perché bocciava gli asini. Però i medici che mi hanno in cura sono certi: sarei complottista perché non riesco a mandar giù questa storia del governo Monti. Potrebbero avere ragione perché io, più guardo Monti, più sento rumori sinistri, vedo ombre aggirarsi, acciglio lo sguardo verso la nebbia e tendo i sensi. Insomma, secondo loro avrei l’atteggiamento tipico del complottista patologico. I sintomi sono comparsi da poco; da quel 10 novembre scorso, quando il presidente di Banca Intesa, il silente Giovanni Bazoli, ha sentito il bisogno di dichiarare che Giorgio Napolitano era una “figura eccezionale che la storia ci ha dato in un momento difficile”, sette giorni prima che l’amministratore delegato della sua banca divenisse il nuovo Ministro dello Sviluppo del governo voluto proprio da Napolitano. Poi i sintomi mi si sono acuiti quando Barack Obama ha telefonato al Presidente della Repubblica per congratularsi dell’incarico a Monti prima ancora che Berlusconi si dimettesse, e io ho pensato che la nostra sovranità nazionale era diventata, per dirla con Céline, “una demagogica fottitura”. A quel punto i medici sono intervenuti e mi hanno preso in cura. Terapia intensiva a base di articoli quotidiani di De Bortoli e Riotta, di Repubblica e la Stampa, per tranquillizzarmi che tutto è a posto; che non bisogna dare retta a quel giornalino ininfluente che si chiama Financial Times, quando annuncia che, per le elite europee, “la democrazia ormai è un lusso antiquato”. Eppure, nonostante gli antibiotici cartacei continuo a pensare che la notizia di Milano Finanza, secondo cui il picco di spread che ha costretto Berlusconi a dimettersi è stato prodotto da vendite innescate da Goldman Sachs, possa essere credibile.
Ma tutto questo è passato remoto. Il presente è la manovra di 30 miliardi grazie alla quale, parola di Mario Monti, l’Italia non fallirà. Di sicuro non falliranno gli istituti di credito. Siccome il governo Monti non è il governo dei banchieri e nemmeno dei loro amici, il fatto che la manovra la paghino tutti tranne le banche è solo frutto della legge universale della causalità. Qualcuno mi ha risposto: allora sei un complottista. E lo so, sto in cura per questo. Poi però, prendendo una delle mie medicine quotidiane, il Corriere della Sera, ho letto che anche lì pensano la stessa cosa ma con una variante: il vantaggio che le banche ricevono da questa manovra dovrà servire a rilanciare il sistema finanziario che poi elargirà aiuti a imprese e famiglie come fossero bruscolini. Come no, ovvio. Ma ai miei occhi complottisti gli aiuti alle banche (sotto forma di garanzia dello Stato sui loro titoli di debito, di incremento obbligatorio dell’uso di carte di credito dato dalla tracciabilità dei pagamenti, di obbligatorietà di apertura di conti correnti per i pensionati e di estensione dell’imposta di bollo sui depositi finanziari) ha qualcosa di pornografico, in un momento in cui vengono cantate le virtù verginali delle tasse e dei tagli. Non solo, ma il mio complottismo mi fa immaginare che l’inevitabile crisi del mercato immobiliare (vera risorsa d’investimento degli italiani) dovuto alle nuove tassazioni sulla casa, spingerà sempre più liquidità nelle banche a riempire il loro ventre molle con il quale alimenteranno la loro politica di debito e di finanziamento di se stesse. La realtà è che bisogna non essere economisti bocconiani per vedere il carattere recessivo di questa manovra che di sviluppo non ha un’ombra, ed è finalizzata a tenere in vita non l’Italia, ma l’Euro ed il sistema finanziario che da esso si alimenta; non l’Europa, di cui non frega nulla a nessuno, ma una moneta senza Stato. L’economia ha cessato da tempo di essere “nomos della casa” strumento di produzione di ricchezza reale, di beni, di funzioni per una comunità. Essa è sempre più carta straccia e debito, moneta creata dal nulla da un sistema finanziario che ormai regola le nostre vite. Quelli come me sono complottisti, non perché vogliono esserlo, ma perché, come Jessica Rabbit, ci disegnano così. Potrebbero disegnarci in carne ed ossa, ma non conviene. Conviene pensarci un cartone animato anche se siamo più reali dei nostri disegnatori. Eppure non tutto è già scritto. Il barone di Montesquieu che la sapeva lunga diceva che “se si consulta la storia la si troverà piena di grandi avvenimenti imprevisti”. Chissà se gli sceneggiatori del cartoon fatto di spread, rating e indici hanno previsto il ritorno dei popoli alla realtà.

Di Giampaolo Rossi

Se quest'anno, per Natale, non sapete cosa regalare, comprate questo libro. Un libro italiano, che racconta una storia italiana, scritto da tre ragazzi che hanno deciso di raccontare, in modo estremamente originale, delle vicende del pool antimafia di Palermo, delle stragi, del rapporto Stato-mafia, le vicende che hanno colorato, a tinte fosche, alcune tra le pagine più buie della storia d’Italia. «Per oltre un decennio – leggiamo -  dalla fine degli anni Settanta all’inizio dei Novanta, Cosa Nostra ha accumulato potere, diventando l’organizzazione criminale più influente al mondo, e contemporaneamente ha dichiarato la propria guerra allo Stato: una guerra sempre meno sotterranea e sempre più violenta, di cui la strage di Capaci e quella di via D’Amelio rappresentarono il culmine».“Un fatto umano” è il frutto di uno studio meticoloso, durato circa 6 anni,  e che ha portato alla nascita di un fumetto, o meglio, di una "Graphic novel", i cui protagonisti sono rappresentati con un volto di animale: Riina e i corleonesi sono dei cinghiali, Buscetta un pappagallo, Sindona una gazza ladra. Quasi per ironia Falcone e Borsellino, i due amici inseparabili, sono un cane ed un gatto. Aedo della storia, che è narrata da un prosatore esterno, è Mimmo Cuticchio, il celebre puparo e cuntista palermitano.

«Era necessario immaginare un narratore esterno alla trama che tenesse le fila della storia, - racconta Manfredi Giffone, - ma scegliere un personaggio adatto allo scopo era tutt’altro che facile. Una notte d’estate del 2007 il mio amico Massimo Geraci mi ha portato a vedere uno spettacolo che si teneva al Palazzo D’Aumale di Terrasini: La riscoperta di Troia di Mimmo Cuticchio. La fama di Cuticchio lo precedeva, e vedendolo all’opera ho capito subito che sarebbe stato la voce narrante ideale per questa storia. Quando gliel’ho proposto, Mimmo ha generosamente acconsentito a prestare il suo volto al narratore».

«Questo libro – scrivono gli autori - è la storia di chi quella guerra l’ha combattuta dalla parte dello Stato, nel nome della giustizia. È la storia di chi in quelle stragi è morto, di chi ha rischiato ma ha trovato la forza nonostante tutto di proseguire la lotta, nella convinzione che, come ogni fatto umano, anche la mafia prima o poi avrebbe avuto una fine».

Si è recentemente concluso il primo incontro del progetto “Building Bridges”, finanziato dall’Ue per la promozione dell’apprendimento permanente attraverso lo scambio intergenerazionale. All’incontro, che si è svolto in Romania, presso la città di Iaşi, hanno partecipato volontari di tutte le associazioni aderenti, ovvero EuropaNet (Romania), Club of Košice Vital Seniors (Slovacchia), Adr-Vlaanderen (Belgio), Mesob Technical and Vocational High School Parents’ Association (Turchia) e l’associazione Tambour Battant (Francia).

Per quattro giorni i rappresentanti di queste associazioni hanno affrontato il tema dello scambio di conoscenze tra giovani e anziani, confrontando anche le singole esperienze vissute dalle diverse associazioni nelle rispettive realtà nazionali. L’intento è quello di costruire un ponte tra generazioni che possa servire per trasmettere cultura – intesa nel senso più vasto del termine.

«E’ stata un’occasione di conoscenza reciproca e di scambio di esperienze tra persone impegnate nell’associazionismo in Europa» racconta Marco, volontario italiano del Modavi che ha preso parte al progetto. «Sono tasselli come questo - continua - che vanno a ricostruire una identità europea fatta di un infinito mosaico di culture destinate a vivere insieme».

La prossima tappa di Building bridges sarà in Belgio, nelle Fiandre, a giugno 2012.

www.latestatanews.it


Tibet, Franco Battiato, estratta da Inneres Auge

Intervista a Giovanni Lindo Ferretti


Pubblichiamo un'interessante intervista a Giovanni Lindo Ferretti, ex cantante dei cccp poi csi e pgr. Oggi scrive per una rubrica de "L'avvenire" e parla di un mondo migliore legato al filo della tradizione. A volte le esperienze più strampalate riconducono lo spirito nella casa madre...

Li ricordo, ai tempi di Ko de mondo. Li ricordo in una fotografia scattata in Bretagna, dove si registrava il disco. Erano una truppa folta, ben assortita, vigorosa. Se il rock era una battaglia da affrontare, loro erano pronti. Avevano chitarre affilate e parole da scagliare come sassi. Erano tanti e agguerriti. Ne son rimasti tre. E da domani, nessuno più.
La notizia è che i PGR si sciolgono. E i PGR erano quel che rimaneva dei CSI, vale a dire il gruppo italiano più importante del suo tempo. E i CSI erano a loro volta la continuazione dell’esperienza dei CCCP. Fatte le somme, si chiude una storia fondamentale per il rock di casa nostra. I “superstiti” Giovanni Lindo Ferretti, Gianni Maroccolo e Giorgio Canali ci lasciano comunicando le Ultime notizie di cronaca, 9 canzoni scarne, asciutte, minimali che gettano uno sguardo intenso e anticonvenzionale sulle cose del mondo. Non è neanche più il lavoro di un gruppo, ma di tre individualità che s’incontrano in modo splendidamente disfunzionale. Li avvicino in due diverse occasioni: prima durante una conferenza stampa, poi per un’intervista faccia a faccia. Chiacchierare con Ferretti spazza via ogni stupidaggine sul suo profilo di profeta punk. Se lui è il canto, l’ateo Canali è il discanto, il diavoletto che gli va ironicamente contro. Dei tre, Maroccolo è il musicista per eccellenza e in quanto tale contrario a mettere fine a un’esperienza tanto feconda: risponde alle mie domande, ma pare stia cercando di parlare agli altri due. I tre incarnano la possibilità che persone diverse, ma di talento, possano non solo lavorare, ma anche creare bellezza. L’aria che si respira è quella della fine di una grande avventura. L’album di cinque anni fa si concludeva con la promettente Si può: «Me ne voglio andare per monti a camminare, essere migliore, lavorare, studiare». Il disco nuovo riparte da lì: dalla montagna, da Cerreto Alpi, mille anime, provincia di Reggio Emilia. La musica rock sta giù a valle e per Ferretti è oramai un punto remoto.


È un disco fatto per dovere, questo, ma non per obbligo.
Ferretti: «È frutto di un contratto del 1997, che fino all’ultimo non volevo nemmeno firmare. È stato un onore e un onere. Ero in difficoltà: non credevo di avere cose da esprimere. Sono stati Gianni e Giorgino a stimolarmi inviandomi le musiche che avevano scritto separatamente. Non è stato un lavoro artistico, ma di artigianato».
In passato era diverso?
Ferretti: «Sì. In passato eravamo un gruppo di amici che vivevano insieme, si confrontavano, discutevano. Quando c’era da fare un disco interrompevamo la nostra vita e ci riunivamo in un luogo deputato alla musica dove mangiavamo, suonavamo, litigavamo. Ora invece ho sperimentato il telelavoro: ci siamo visti a casa di Gianni una decina di giorni, per lavorare poi in assoluta solitudine».
Canali: «Lui è uno che non legge neanche le e-mail».
Ferretti: «Me le devono portare a mano».
D’anime e d’animali era un disco di pancia, rock. Questo è più minimale, senza nemmeno un batterista. È un accidente o una scelta?
Ferretti: «È un progetto che loro due coltivavano da tempo».
Canali: «Tabula Rasa Elettrificata doveva essere fatto così, con multitracce che giravano a staffetta fra i musicisti: ognuno avrebbe aggiunto la sua parte. Non lo si fece per motivi economici: eravamo in tanti e molti avrebbero dovuto essere affiancati da un tecnico del suono».
Maroccolo: «Da tempo andavamo in questa direzione. Poi non se n’è mai fatto nulla perché è difficile tirar fuori una sintesi da sei persone con una personalità forte. Quel che siamo riusciti a fare in passato ha qualcosa di eroico».
Ferretti: «Le canzoni mal riuscite sono quelle in cui non si è riusciti a mettere insieme due idee contrarie. Come Io e Tancredi: le parole sono strepitose, ma la canzone è tremenda».
È un disco di testi forti: in quale misura li sposate?
Maroccolo: «Giovanni è in uno stato di lucidità assoluto. Sottoscrivo i suoi testi al 100%: quelli di oggi e quelli del passato. Non faccio parte del coro che si meraviglia dei suoi cambiamenti».
Canali: «Anche perché obiettivamente i cambiamenti sono finti, virtuali. Mi piace una cosa che ha detto Giovanni: faccio lo stesso disco da vent’anni. Per contenuti e atmosfere Ultime notizie di cronaca non è diverso da Linea gotica».
Ferretti: «Quando c’erano Massimo Zamboni e Francesco Magnelli mi ponevo il problema di trovare una mediazione nelle mie parole. Dovevo raccontare anche loro. Il problema questa volta non s’è posto: ho chiuso ogni cronaca pensando a me».
Perché allora buttare via il gruppo?
Maroccolo: «A me viene da parafrasare il testo di Non torna: a me non torna niente, niente torna mai. Non lo capisco perché ci stiamo sciogliendo. Non capisco perché non suoniamo. Diversamente da loro, non ho vissuto questo disco come un obbligo».
Ferretti: «Non c’è niente che riguardi noi, il nostro stare insieme. È la vita che ha preso altre strade. E la mia vita è dominata da un grande dovere: ho una madre molto malata, da un anno e mezzo mi dedico esclusivamente a lei. In ogni caso farei fatica a uscire dal mio quotidiano per entrare in una dimensione riconducibile al rock’n’roll. Mi si addice piuttosto l’inanellare parole: quello lo faccio con piacere e tensione, tant’è che su certi testi non ci dormo la notte. Sono tre anni che giro con due tipologie di spettacoli musicali: o voce e violino o due voci maschili, organetto e violino. Non frequento le città, solo la provincia: pievi di montagna, cortili di palazzi rinascimentali, sale di castelli, piccoli teatri. Lo spettacolo si chiama Bella gente d’Appennino, è una ricerca sul potere della voce e una riflessione sul vivere in montagna. Potrebbe uscire un live. Inoltre, debbo un secondo libro alla Mondadori».
E che ne pensi, Giorgio, dello scioglimento?
Canali: «Abbiamo dato tutto. Abbiamo svuotato il magazzino. Io non mi sono mai sbilanciato, lo faccio adesso: Ultime notizie di cronaca è la cosa più bella che abbiamo fatto insieme, anche se loro non saranno d’accordo...».
Maroccolo: «Questi sono i PGR: uno pensa che l’altro stia pensando qualcosa... Sono anni che andiamo avanti così (risate, nda)».
Non siete mai stati un gruppo unito, tipo gang?
Maroccolo: «Mai, neanche ai tempi dei CSI».
Ai tempi di Ko de mondo sembravate un esercito...
Ferretti: «Ma un esercito non è un gruppo. Quante litigate... E loro che si aspettavano sempre una mia crisi nervi...».
Maroccolo: «Una dinamica così non può funzionare se vuoi fare un vero gruppo. Siamo stati longevi – e chissà se lo saremo ancora in qualche altra forma – proprio per questo motivo. Anche Giovanni che essendo un cantante...».
Ferretti: «Un cantore...».
Maroccolo: «Anche lui, che a volte non tollera i musicisti, non può prescindere dalla musica. Magari non con noi, ma è destino che faccia ancora musica. Perché è unico. Fa il falso modesto, ma sarà ricordato nella storia della musica non solo italiana per un modo di cantare che è solo suo».
Com’è nato questo salmodiare?
Ferretti: «Non lo so, non lo so».
In questo disco risalta ancora di più...
Maroccolo: «Era ora».
Ferretti: «Oh, queste registrazioni sono nate alla prima, alla seconda prova».
Qui non c’è alcuna ricerca melodica, nel canto.
Ferretti: «Per un periodo sono stato fortunato perché ho avuto come maestri di canto prima Magnelli, poi Ginevra Di Marco. Mi hanno insegnato ad apprezzare la musica. Queste sono invece cronache: mi sarei vergognato ad arricchirle di melodie. Ascolto i cantanti giovani: cantano benissimo, ma fanno cagare, sono cloni. Ci vorrebbe una bella sbattuta come fu il punk».
L’idea di fare cronaca è nata subito?
Ferretti: «Sì, è antecedente alla raccolta del materiale. Da anni ormai ho capito che il mio approccio alla parola è la cronaca in senso medievale».
L’inizio con Cronaca montana trasmette un senso di pacificazione.
Ferretti: «Quel pezzo racchiude il disco. È la canzone più swing che abbia fatto. Swing per me che sono stato squadrato con l’accetta e rintuzzato col martello. È ariosa. Sono i miei ultimi cinque anni di vita».
Maroccolo: «È la prefazione del disco».
Le canzoni nascono da esperienze personali.
Ferretti: «Le parole di Cronaca filiale erano inimmaginabili prima che cominciassi a prendermi cura di mia madre. Lei reggeva il mondo: era impensabile che adesso io regga lei».
Non interviene una forma di pudore nell’esporre un testo così personale?
Ferretti: «No, ed è un pensiero che ho maturato al tempo dell’agonia di Giovanni Paolo II. Ne parlai con Gianni e convenimmo che si mostrava sì, ma con pudore. Lo vedevamo con la bava alla bocca, ma era il nostro Papa. Mi fa senso il fatto che i bimbi non debbano vedere i morti o i malati. La vita ha una sua ragion d’essere, anche se magari non la capiamo tutta. Il raccontare di una madre che non esiste più se non come immagine è come il Papa che permette alle telecamere di riprenderlo. Non manca di pudore chi si mostra per quello che è. Le parole di Cronaca filiale sono state pesate. Poche parole come “Lesto nel pudore, audace in tenerezza” raccontano scene irraccontabili in altro modo. Essere figlio o padre è un’esperienza incredibile, se uno è in grado di apprezzarla. Ti dà accesso a una comprensione della vita meno superficiale. Confrontarsi con il dolore fa parte del vivere».
In Cronaca del 2009 canti di essere «fecondi d’aborto» e di «democratiche soluzioni eutanasiche»...
Ferretti: «Chi mi segue – perché mi vuol bene o mi detesta – sa che sono cose che mi stanno a cuore. Ripensando alla mia stessa vita, mia madre avrebbe potuto abortire per centomila buoni motivi. E mi sembra faticoso e difficile discutere sul fine vita: difficile, sì, ma doveroso. Non sono un politico, lo faccio perché mi tocca di persona. Offro alla riflessione un pezzo della mia storia personale, parlo di queste cose perché le sperimento quotidianamente».
Pensi che oggi la vera guerra si combatta sul significato dell’esperienza umana?
Ferretti: «Si combatte sul significato delle parole. In Spagna Zapatero ha fatto una legge per cui non è più possibile utilizzare i termini “padre” e “madre”, ma si usa un termine “genitoriale” indifferente al sesso. Cazzo, questa è una guerra con la storia dell’umanità e con l’esistenza degli uomini. Non sono pacifista, per cui se per legge non posso parlare di padre e madre, io ti faccio fuori. Ho un problema con i pacifisti dal tempo in cui ci fu l’embargo di tre anni a Sarajevo: una città obbligata a morire senza potersi armare e difendere, tre anni sotto i bombardamenti in onore della pace. Non ci sono mai state così tante guerre al mondo e non c’è mai stato un tale abuso del termine pace. Affanculo! Se cerchi di distruggere il mio paese, io cerco di armarmi e difendermi. È esperienza umana, animale, religiosa, quel che vuoi».
In questo senso il nuovo album aggiorna il discorso di D’anime e d’animali...
Ferretti: «Per quanto mi riguarda aggiorna il discorso di Affinità e divergenze tra il compagno Togliatti e noi. Mi torna tutto: i cambiamenti stanno nella logica della vita. Questo è il disco che regalo ai miei dieci amici che non vedo da un anno e mezzo perché non uso telefono, né e-mail: c’è tutto quello che devo dire. Sono le lettere che non ho spedito».
Le devi spedire anche a Giorgio e a Gianni? Voglio dire, c’è una discussione tra di voi di certi temi?
Maroccolo: «Non si discute dell’acquisito. Ognuno capisce quel che vuole capire».
Ferretti: «Io mi stupisco di come i loro strumenti dicano le cose che dico io, però con la musica».
Canali: «Del resto Giovanna d’Arco sentiva le voci... (risate, nda)».
Ma questo non dirsi le cose non sconfina nella mancanza di comunicazione?
Ferretti: «In teoria hai ragione. Ma nella pratica la bontà di questo disco dimostra che non è così. Io in cinquant’anni non ho mai abbracciato mia madre: questo non mette in discussione il fatto che sono suo figlio».
In Cronaca di guerra II dici che la «riffa diplomatica mette in palio il Nobel»...
Ferretti: «A volte sembra che guerra e pace siano difficilmente distinguibili. Quando una cricca diplomatica decide che il Nobel per la pace può essere dato ad Arafat e non a Giovanni Paolo II, io dico: tenetevelo, il vostro Nobel».
Che ne pensi del nuovo Papa?
Ferretti: «Sono molto legato a Benedetto Decimosesto. Dopo aver letto su Manifesto e Repubblica insulti all’allora Cardinale Ratzinger, mi sono chiesto: chi è che si prende le ire di tutti? Sono entrato in una libreria cattolica e ho comprato tutti i suoi libri in italiano, nove. È stata una sorpresa incredibile. Mi sono molto affezionato al suo pensiero e alla sua persona. Ho ritagliato una sua foto e l’ho appesa in casa. Ho scoperto il mio maestro».
Quanto c’è in tutto questo del gusto punk dell’andare contro?
Ferretti: «È una mia profonda ragion d’essere. Il mio interesse per il mondo nasce più dal negativo che dal positivo. Entro nelle cose della vita dalla porta secondaria del cattivo gusto».
Oltre alla parte teologica, ti sono piaciuto anche le sue mosse da Pontefice?
Ferretti: «Ne sono molto contento. Se posso vado a Roma a prendermi la benedizione del Papa la domenica. Comunque, me la prendo dalla televisione».
Pensi abbia un’ingerenza nella politica?
Ferretti: «Il Papa deve fare il Papa: deve dire la verità della Chiesa, non deve andare d’accordo con la società. È difficile farlo dopo Giovanni Paolo II che aveva un legame fortissimo coi media. Condivido anche le idee sull’uso del preservativo. Ma siete stati in Africa? Avete mai preso in mano un preservativo? Avete visto le mani di un africano? Al continente africano serve un approccio diverso alla vita, alla corporalità, al mistero della femminilità e della mascolinità».
Mi stupisco ogni volta delle reazioni violente alla tua evoluzione. Cos’è che scatena la gente?
Canali: «Si chiama stupidità. Una generazione intera cantava davanti al palco dei CCCP “Madre di Dio e dei suoi figli” e si è accorta vent’anni dopo che lui è cattolico: ma per favore!».
Ferretti: «Alla Virgin ci dissero che Madre non potevamo permettercela, per via del nostro pubblico. L’Antonella (Annarella, nda) rispose: fatevi i cazzi vostri, ché tanto tutti la canteranno col pugno alzato. Oh, è esattamente quello che succedeva. Come mi disse un prete: Ferretti, la gente è stupida».
Maroccolo: «Unità di produzione diceva: peggio di così (col comunismo, nda) non poteva andare. Eppure 8 mila persone l’ascoltavano col pugno alzato. Cazzo capivano quelli? Chi è fottuto dall’ideologia vive in un mondo che non ha niente a che fare con la vita reale».
Ferretti: «Però incontro in amicizia persone che hanno scritto cose orribili su di me. La vita è di più della professione delle idee che facciamo su di essa».
L’album si chiude in bellezza con Cronaca divina, un testo che non stonerebbe in una liturgia e che comprende il Te Deum.
Ferretti: «Ho chiesto a Giorgio una chitarra miscredente, forte, che desse idea della complessità. È un sibilo fastidioso, ma quando cominci a seguirla ti rendi conto che non è molto lontana dalle mie parole. Il Santus è una mia preghiera quotidiana: l’ho registrata sul vuoto e ho detto a loro due di farne quel che volevano».
Cronaca divina è una professione di fede.
Ferretti: «È esattamente quello».
Però si conclude con la frase «Eli Eli lama sabactani»,  «Dio, perché mi hai abbandonato?».
Ferretti: «Non sono un santo, sono un peccatore e come tale percepisco nella mia vita l’abbandono di Dio. Vivere è un casino. E quella è l’ultima frase che Dio nella sua manifestazione umana dice durante la sua vita terrena».
Canali: «Imbarazzante il paragone, eh?».

giovedì 8 dicembre 2011

Il diario di celio, l'appennino e il sogno (vuoto?) americano


 Arrivano per posta, consegnati a mano alla fine dei concerti, me li portano a casa: canzoni, poesie, racconti, qualche romanzo, qualche saggio. Mi si chiede un giudizio, si aspira ad una presentazione, una prefazione, un intervento qualsiasi. Rispondo sempre: - no -. Non sono un critico letterario, non so dare consigli; scrivo per mio piacere, rasenta la necessità o il dovere, in ambito strettamente personale. Celio Tronconi è un mio compaesano, mi precede di una generazione, per un anno ha scritto il diario della sua vita; fermandomi per strada mi raccontava delle sue intenzioni e del suo procedere, poi l'ha finito e mi ha portato la prima stesura, l'ho letto e riletto e mentre pensavo come aiutarlo per la stampa ho trovato il suo libro in vendita nei bar e nei tabacchini della zona. "Il diario di Celio" comincia nel 1933, a ventesimo secolo già inoltrato e lo racchiude. E' scarno, lapidario, non contiene alcuna descrizione ma brevi pensieri, ricordi di accadimenti. E' pieno di fotografie a cui tiene molto. La più bella è la foto di famiglia e vale un saggio storico: la madre e la sorella corrispondono ad una iconografia ancora perfetta per illustrare la vita di Santa Giovanna d'Arco o Santa Genoeffa; i due fratelli più grandi sono immagine del secolo delle ideologie che stanno straziando il mondo, uno stile e un portamento tra il bolscevico e il nazista a misura di bimbo; i due più piccoli sembrano anticipare il baby boom e il miracolo italiano del dopoguerra. Quello che non è accettabile nella memorialistica sui tempi andati è la confusione, in parte voluta in parte subita, tra le cose e gli usi di una volta e la tradizione. Chi ha vissuto nel secolo XX non conosce la tradizione ma il suo tradimento conclamato e rivendicato. Celio vive e racconta di un tempo già trasformato, irrimediabilmente chiuso ad un passato che non osa nemmeno immaginare per non mettere a rischio le proprie certezze. Racconta di un borgo di montagna, estrema periferia del progresso, in cui troppo è già stato distrutto ma molto resta da fare per accedere al sol dell'avvenire. Chi potrebbe raccontare il mondo com'era, anche se già alla fine, sono i vecchi della sua infanzia: Francchin, la Jusfina, Gigi il brutto, il Meciai, ma per loro c'è il Paradiso in Cielo non la testimonianza in terra. Succedono ancora cose strane come la formaggetta rifiutata al frate e il latte che non vuol più cagliare. E' ancora in atto, perenne dissidio contenuto da usanze e buonsenso, la guerra tra pastori e agricoltori ma si stanno costruendo le fabbriche e gli uni e gli altri sono già destinati a diventare proletariato. Come guizzo fuori tempo, ma siamo montanari quindi in ritardo, scoppia a Scorgacan, e Celio l'intravede, l'ultima battaglia per i pascoli ma ci vorrebbe un bardo o un cantore delle steppe e montagne d'Asia per raccontare le gesta dei pastori guerrieri di Cerreto e Succiso. Tempo a scadere per la democrazia tradizionale: «la regola, detta statuto, dettata dai capifamiglia ed approvata per alzata di mano», filosofi e politici hanno già deciso che ben altri sono i diritti e i doveri del moderno cittadino. Affiora tra lasagne ribassate per l'altitudine dell'Alpe e scarpe scambiate alla fiera di Sant'Ambrogio un'eco boccaccesca di arguzia popolana. Pochi e fulminanti accenni sociali: «con gli americani arrivò il boogie boogie che imparai subito», «con gli amici si andava a fare gli americani». Eccolo il sogno italiano: il benessere materiale, giubbotti moto e macchine, godersi la vita. Fare gli americani. Come non essere d'accordo? - Durarala? - direbbe Celio e con lui l'antica saggezza di un popolo estinto. Senza storia, senza memoria condivisa non c'è comunità, non c'è società, e la vita si consuma in uno sforzo di volontà che cumula il vano sul vuoto.

Giovanni Lindo Ferretti