sabato 31 dicembre 2011

Tremaglia e i paradossi del fascista duro e puro



Fu a Salò, nell’Msi e in An, ma poi seguì Fini. Uomo d’azione, il suo "capolavoro" fu il figlio intellettuale

È morto ieri, a 85 anni, Mirko Tremaglia. Ex ragazzo di Salò, esponente del Msi, poi di An, aveva seguito Gianfranco Fini in Futuro e libertà. Nato a Bergamo nel 1926, laureato in Giurisprudenza, avvocato, è stato deputato in 11 legislature.

Ministro degli Italiani nel mondo, sua è la legge che ha riconosciuto il diritto di voto degli italiani residenti all’estero. I funerali saranno celebrati lunedì 2 gennaio a Bergamo.

Sì, è morto l’ultimo fascista dichiarato e non pentito che sedeva in Parlamento. Mirko Tremaglia, vecchio leone, fascista indomito, per dirla nel suo linguaggio da combattente e camerata. Espansivo ed estroverso, ricco di umanità, non sembrava ai miei occhi terronici un bergamasco. Di lui molti ammiravano la coerenza e altrettanti deploravano la testardaggine. Ma dietro la fedeltà al Duce, Tremaglia viaggiò molto dal suo fascismo rivoluzionario della gioventù; lasciò le originarie posizioni sociali da fascismo di Salò, Corporativismo&Socializzazione, per sposare un fascismo d’ordine, giustizialista e filoamericano. Fu fascista ma non di quelli crepuscolari o catacombali; sapeva farsi valere anche da missino, intrecciava relazioni politiche e rapporti personali anche con avversari e uomini delle istituzioni. Fu tra i primi sponsor di Di Pietro, Cossiga e Mani pulite. Fu fascista di Salò ma accettò le cure termali di Fiuggi e aderì ad Alleanza Nazionale. Fu fascista repubblicano ma sostenne Israele e i falchi americani. Patì la perdita di suo figlio Marzio ma anche il suo prestigio, che oscurava quello di suo padre. Quella morte prematura lo invecchiò di colpo, e per anni visse nel ricordo di lui, con una teatralità del dolore tipica delle culture siculomediterranee. Ricordo una grandiosa manifestazione a Bergamo, stracolma di gente, in cui parlammo di Marzio, con Fassino, Fini e Cardini. Per lungo tempo lui portò il suo dolore paterno, genuino e plateale, in processione per l’Italia e in ogni occasione.Ricordo un suo pianto anche in una manifestazione al Vittoriano da Ministro per gli italiani all’estero.

Sanguigno e tuonante, incline al fascismo duro e puro e al pianto tenero e sentimentale, la parabola politica ed esistenziale di Tremaglia è segnata da tre paradossi. Fu Irriducibile fascista, militante fedele del fascismo di Salò, del vecchio Msi e poi di An, ma alla fine seguì il becchino di tutti e tre, Fini, aderendo a Futuro e Libertà; lui che era tutto Nostalgia e Autorità. Secondo paradosso: spese una vita per gli italiani all’estero, si prodigò per loro, fondò i comitati tricolore e volle la legge che consentiva il voto ai nostri emigrati; pensava a un trionfo ma la sua lista ottenne un solo seggio su 18 e grazie alla sua legge il governo Prodi ebbe la maggioranza assoluta in Senato. Terzo paradosso: era un fascista d’azione, diffidente verso le elucubrazioni degli intellettuali e il culturame, ma il destino gli giocò uno scherzo feroce e benedetto: suo figlio Marzio tradì il cliché del fascista attivista, fu un raffinato intellettuale prestato alla politica, gran promotore di idee e assessore lombardo alla cultura. Anzi «il miglior assessore alla cultura d’Italia » disse una volta Walter Veltroni, e non lo disse in un elogio funebre, ma quando Marzio era ancora assessore in carica (lo disse anche a me, ricordo, eravamo a Parigi e lui era ministro dei Beni culturali). In fondo, la più grande eredità di Mirko è morta prima di lui: è Marzio, suo figlio, politico colto e illuminato.


I saluti romani sono fuori luogo, fuori tempo e fuori legge ma consentite almeno l’estremo saluto romano per i fascisti morenti, unito al congedo che lui avrebbe voluto: camerata Mirko Tremaglia presente.

di Marcello Veneziani - 31 dicembre 2011, 10:56

martedì 27 dicembre 2011

La Cina è vicina...


Sichuan, Chen Wei, attivista di Tiananmen e della “rivoluzione dei gelsomini”, condannato a 9 anni
È una delle sentenze più pesanti in questi ultimi anni. Le accuse di “sovversione” si basano su alcuni articoli pubblicati su internet – e molto diffusi – in cui si propone la democrazia come una strada migliore della dittatura del Partito comunista cinese. Chen “è recidivo”: attivo ai tempi di Tiananmen, ha scontato già diversi anni di prigione ed è uno dei leader del movimento democratico nel Sichuan. Un percorso simile a quello di Liu Xiaobo, premio Nobel 2010.

Pechino (AsiaNews/Chrd) – Chen Wei, un veterano attivista della democrazia in Cina, è stato condannato oggi a 9 anni di prigione e a due anni di privazione dei suoi diritti da un tribunale di Suining (Sichuan). Chen Wei è stato accusato di “incitamento a sovvertire il potere dello Stato”, per aver pubblicato su internet alcuni suoi articoli inneggianti alla democrazia e alla “rivoluzione dei gelsomini”. La sentenza contro di lui è fra le più pesanti comminate un attivista in questi ultimi anni.

Liang Xiaojun, uno degli avvocati di Chen, ha commentato la sentenza dicendo che “il verdetto era predeterminato”. Chen Wei non ha potuto nemmeno fare alcuna dichiarazione: è stato subito trascinato via dalla corte e ha solo potuto gridare: “Non sono colpevole! La democrazia costituzionale vincerà! La dittatura sarà sconfitta!”.

Nella lista delle accuse, il procuratore di Suning mostra alcune “prove” dei tentativi di sovversione ad opera di Chen. Esse sono quattro articoli scritti fra marzo 2009 e gennaio 2011: “La malattia del sistema e la medicina della democrazia costituzionale”; “La chiave per democratizzare la Cina e la crescita dell’opposizione civile”; “I piedi del movimento per la difesa dei diritti e la testa per un movimento della democrazia costituzionale”; “Pensieri sul digiuno nella giornata per i diritti umani”.
L’accusa cita anche frasi specifiche come “prove” di “diffamazione” verso il governo cinese: “la gente è stata derubata del proprio pensiero e fede”; “il Partito comunista cinese (Pcc) usa lo strumento della violenza per controllare il popolo”; il Pcc è “nemico della democrazia”; eccc..

Come “prova” dell’incitamento alla “sovversione”, l’accusa cita la frase “questo sistema va cambiato”; oppure: “occorre usare le proteste di piazza per diffondere la politica fra la gente”. Il procuratore ha tentato di mostrare che poiché gli articoli di Chen sono stati linkati e diffusi in molte pagine web, essi hanno avuto “un brutto effetto”. E ha convinto i giudici – se ce n’era bisogno - che siccome in passato Chen Wei è stato condannato per “attività controrivoluzionarie” (ai tempi di Tiananmen), la sentenza doveva essere pesante perché egli è recidivo.

Il processo, le accuse e la condanna ricordano da vicino quanto accaduto a Liu Xiaobo, il premio Nobel per la pace 2010, condannato a 11 anni di prigione per alcuni articoli diffusi su internet.

Almeno 200 poliziotti hanno bloccato le strade attorno al tribunale, vietando l’ingresso ad amici e altri attivisti. Un gruppo di loro, fra cui Duan Qixian e Zhang Wei, entrambi dal Guangxi, sono stati trattenuti dalla polizia.

Chen è stato arrestato lo scorso 20 febbraio, durante alcuni timidi tentativi di innescare in Cina una “rivoluzione dei gelsomini” simile a quella dei Paesi arabi. Solo il 28 marzo egli è stato formalmente accusato di “sovversione” e trattenuto nella prigione municipale di Suining. Il suo avvocato ha potuto incontrarlo solo tre volte prima del processo.

Chen Wei, 42 anni, è nato a Suning. Nel 1989, come studente dell’Istituto di tecnologia di Pechino, egli ha partecipato alle proteste di piazza Tiananmen ed è stato condannato e rinchiuso nella prigione di Qincheng. Nel maggio 1992 è stato rilasciato, ma circa un anno e mezzo dopo egli è stato di nuovo arrestato per aver tentato di commemorare i morti di Tiananmen. Per questo è stato condannato a cinque anni di carcere. Negli ultimi anni Che Wei è divenuto unod ei leader del movimento democratico nel Sichuan.

Asianews.it

domenica 18 dicembre 2011

Eos 2012



"Il meraviglioso non suscita in noi nessuna sorpresa, perché il meraviglioso è ciò con cui abbiamo la più profonda confidenza. La felicità che la sua vista ci procura sta propriamente nel fatto di veder confermata la verità dei nostri sogni" (Ernst Jünger).

Mercoledì 21 Dicembre - ore 19.00
Salutiamo il nuovo sole
Solstizio d’inverno, Natale, Capodanno… Tutto in questo periodo dell’anno porta con sé il marchio del cambiamento. Anche il mese che arriva, gennaio, primo di dodici, alla mezzanotte del 31 dicembre riceve il testimone dal vecchio e rinasce come nuovo. Non a caso prende nome da Ianus, il dio romano Giano che presiede agli inizi, alle porte e ai passaggi. Quelli materiali come quelli immateriali. Anche l’inizio di una nuova impresa è votato a Giano. Anche un’impresa economica…
Racconta una leggenda che Giano ricevette da Saturno (grato per l’ospitalità ricevuta) il dono di vedere sia il passato che il futuro. E per questo la tradizione lo raffigura come Giano Bifronte.
Questo, per tutti noi, è un tempo di passaggio per molti motivi che vanno al di là della semplice osservazione del calendario. Uno su tutti: siamo passati dal governo della politica a quello delle banche. E non è un cambiamento da poco, visto che questa minaccia toglieva il sonno a molti già quasi un secolo fa (do you remember the «complotto demoplutogiudaico»?) e si è realizzata al di là delle più fantasiose previsioni dei complottisti più stralunati.
Nel 1997 Giano Accame (nomen omen) scrisse un libro dal titolo Il potere del denaro svuota le democrazie. Mai titolo fu più perfetto presagio di accadimenti incombenti… D’altra parte, già allora Giano scriveva che (con il governo “tecnico” presieduto da Carlo Azeglio Ciampi) le sinistre avevano «messo negli anni Novanta il Paese nelle mani dei banchieri che vediamo adesso che razza di imbecilli sono».
Oggi sembra essere tornati a quel punto, ma purtroppo non è così: è molto peggio, perché la brillante soluzione tecnocratica non colpisce solo l’Italia ma anche altre nazioni europee e l’attacco alla politica è infinitamente più massiccio e pervasivo. Negli anni Novanta era un fatto sostanzialmente italiano, oggi è globale a causa della crisi scatenata proprio da quegli stessi «imbecilli»…
Temevamo un futuro governato dagli squali della finanza e avevamo immaginato quel mondo cupo con romanzi e film. Ora che quel futuro ci ha raggiunti sentiamo il peso di un potere enorme e apparentemente invincibile. Ma in nome di Giano (quello divino e quello umano che abbiamo conosciuto e amato), dobbiamo guardare agli insegnamenti del passato per dare al futuro una prospettiva nuova.
Non c’è notte tanto lunga che possa impedire al sole di risorgere.
Dipende da noi e solo da noi.

di Gabriele Marconi

E di tutto il sogno tu sei la sola cosa concreta che mi resta


 “…E di tutto il sogno tu sei la sola cosa concreta che mi resta” dice Corto Maltese a un merlo, al termine di una sua avventura onirica. “La vita è un sogno, o i sogni aiutano a vivere meglio?” chiedeva invece il leggendario Marzullo. E la domanda è meno stupida di quanto si pensi: la vita è un sogno? Lo credevano gli uomini di altre civiltà e di altri tempi, non ancora legati in maniera esasperata alla materia, che questo mondo con le sue intricate vicende fosse solo l’immenso sogno di un sognatore eterno. I sogni aiutano a vivere meglio? Probabilmente, tanto che a questi sogni alcuni uomini si sono dedicati così tanto da sacrificare tutta la propria vita per farli propri. È dunque questa vita terrena l’illusione da cui è necessario affrancarsi attraverso una disciplina durissima o forse ciò che è oltre l’immediato dei sensi non è altro che cibo per menti febbrili e portate ad estraniarsi dalla realtà, per sfuggire a una vita non abbastanza appagante (foss’anche la vita di un principe di razza guerriera, come quella di colui che diventò il Buddha)?

L’incipit di Ludi africani di Ernst Jünger è significativo, a riguardo: “Alla fine, soltanto l’immaginazione ci pare l’unica realtà e la vita di tutti i giorni un sogno, nel quale ci muoviamo svogliati, come un attore turbato dal suo ruolo. È allora il momento in cui il crescente disgusto fa appello alla ragione e le pone il compito di cercare una via d’uscita”; e la via d’uscita può trovarsi nella fuga giovanile di uno spirito irrequieto verso l’Africa, passando attraverso l’arruolamento nella Legione straniera per puro gusto di avventura e scoperta, come, per coloro che momentaneamente si rassegnano alla normale vita borghese, alla lettura di un libro come quello.

O forse il sogno lo si può cercare nella solitudine, e un periglioso viaggio lo si può affrontare su un piano diverso da quello materiale: così fece il creatore della teosofia orientale (una sintesi di Islam sciita, platonismo e mazdeismo) Sohrawardi, il quale descrisse accuratamente le sue peregrinazioni che, dal riportare coordinate precise dei luoghi che stava attraversando, cominciarono a confondersi come in una tempesta di sabbia e sconfinare nel regno metafisico che l’orientalista francese Henry Corbin chiamò mundus imaginalis: un mondo concreto, ma fatto di spirito, al quale si sarebbe potuti (o si potrebbe) accedere risvegliando le facoltà “immaginali” dell’essere umano; non l’immaginazione come fantasia, così come concepita dall’uomo moderno, ma una capacità di “immaginare” infinitamente più potente e concreta. Immaginare ciò che esiste realmente su un altro piano dell’Essere.

E così anche l’asceta buddhista Milarepa, che pur di realizzare la sua vera essenza spezzando i vincoli che lo tenevano legato a questo mondo si isolò in una grotta tra le montagne dell’Himalaya, in solitudine e astinenza da qualsiasi forma di piacere o turbamento. Davvero Milarepa fu solo un pazzo? Davvero distrusse la sua stessa vita quando avrebbe potuto darsi alla baldoria, o forse la baldoria è effimera e volgare e la vita vera l’ha invece conquistata?

Un caso moderno (e letterario) è infine quello di Darrell Standing, il protagonista del bellissimo romanzo Il vagabondo delle stelle” di Jack London: un uomo che, rinchiuso in un carcere, finito in un isolamento durissimo e sottoposto per innumerevoli volte alla tortura della camicia di forza che avrebbe condotto chiunque altro alla pazzia, trova una via per sfuggire a quella terribile condizione di prigionia, dolore e sudiciume. Assumendo il totale controllo del suo corpo fino a farlo temporaneamente morire riesce e a rivivere le sue vite passate, e quelle lunghissime ore nella camicia di forza saranno per lui secoli di incredibili avventure riportate alla luce, nell’oscurità, anche morale, di un carcere. Un po’ come la casa dorata di Samarcanda, la prigione in cui fu rinchiuso Rasputin, il compagno di avventure di Corto Maltese: il nome deriva dal fatto che “l’unica maniera di evadere da quella sono i sogni dorati provocati dall’hashish”.

Voglia di una vita (fisica o metafisica che sia) più intensa? malsana alienazione? fantasie per gente poco “pratica”? dovremmo pensare solo al nostro interesse “qui e ora”? Forse, azzardando una citazione, viene in nostro aiuto Mussolini: “E’ la fede che muove le montagne, perché dà l’illusione che le montagne si muovano: l’illusione, questa è forse l’unica realtà della vita”. Già, l’illusione è l’unica realtà della vita. Difficile catturare il senso di quest’espressione profonda ma sfuggente; tuttavia lascia intravedere qualcosa, come un oscuro senso di verità. Ma per entrare in una visione più tradizionalistica, riprendiamo una frase di Baader (citata da Jünger in Avvicinamenti): “Nessuno tra i grandi naturalisti ha negato che sia vero che ogni tratto spirituale abbia il suo simbolo quaggiù e che quindi l’intera natura stia davanti ai nostri occhi come un geroglifico”. Come dire che qualcosa sta dietro il tutto, e che squarciato il velo quel mistero si mostra nudo alla nostra vista; ma ai nostri occhi ancora troppo umani tutto è un simbolo, o un simbolo di un simbolo, ed è un dono raro saperlo mostrare come tale: è la storia degli spiriti più profondi, da Dante a Blake a Pound. Da parte nostra possiamo dire che tutto ciò che è “normale” è volgare, e in qualche modo, come il giovane Jünger, bisognerà trovare una via d’uscita. Che sia nel cavalcare la tigre della libertà e nell’asprezza sotto un torrido sole dei tropici o nel decifrare finalmente il linguaggio segreto dell’Essere.

Alberto Lodi

sabato 17 dicembre 2011

Una fiaccola per affrontare il buio


Questo non è un cucù come gli altri ma è un appello rivolto a tutti e riservato a pochi.
Nasce da una storia dolorosa. Carmelo I. - mi hanno detto di scrivere il suo cognome ma sento di rispettare la soglia- ha militato da ragazzo nel Fronte della gioventù.
Da adulto,ancora giovane, ha scoperto un cancro e ora è al terzo ciclo di chemioterapia. Ha chiesto agli amici, che in quel tempo si chiamavano in altro modo, di avere con sé, nell' estrema avventura, la bandiera dei suoi vent'anni, il tricolore con la fiaccola del Fronte al centro. I suoi amici non riescono a trovarla, l'hanno chiesto anche a me che fino a 17 anni militai nel Fronte, capeggiando una sezione. Realizzai con un archetto l'unica manifattura della mia vita, lo stampo di una fiaccola per riprodurne la sagoma sui muri. Era bella la fiaccola ed era fiera la mano che l'impugnava. Ho pensato allora di rivolgere un appello. Sono tanti i ragazzi passati da quella militanza, me ne accorsi una volta che parlai del loro sogno tradito dal leader. Allora chiedo a tutti loro e ai fondatori del Fronte, Massimo Anderson e Pietro Cerullo che guidava la Giovane Italia: se avete una bandiera con la fiaccola contattate chille_s@camera.it . Confesso che mi ha colpito questa richiesta, non solo per la tragedia ma anche per la tenera fedeltà ai propri vent'anni e per la voglia di dedicare la propria vita, anzi di avvolgerla nel simbolo di un ideale di gioventù che resta il segno di nobiltà e di passione pubblica in un'epoca privata d'ambedue. Una fiaccola per affrontare il buio.

Marcello Veneziani

La Bandiera poi è stata trovata, verrà consegnata a Carmelo, la porterà nel cuore, perchè il valore di una vita vissuta alla luce del sole guardando in faccia il destino, vale mille bandiere issate al vento.

venerdì 16 dicembre 2011

Sono un complottista


Sono complottista. O almeno così dicono. Lo sono perché secondo alcuni ho un modo semplicistico di vedere la complessità delle cose che, ovviamente, devono rimanere complesse apposta perché nessuno le veda. Se fosse per me direi che sono complottista non per convinzione ma per convenzione; come quel professore di liceo degli anni ’70 a cui davano del fascista solo perché bocciava gli asini. Però i medici che mi hanno in cura sono certi: sarei complottista perché non riesco a mandar giù questa storia del governo Monti. Potrebbero avere ragione perché io, più guardo Monti, più sento rumori sinistri, vedo ombre aggirarsi, acciglio lo sguardo verso la nebbia e tendo i sensi. Insomma, secondo loro avrei l’atteggiamento tipico del complottista patologico. I sintomi sono comparsi da poco; da quel 10 novembre scorso, quando il presidente di Banca Intesa, il silente Giovanni Bazoli, ha sentito il bisogno di dichiarare che Giorgio Napolitano era una “figura eccezionale che la storia ci ha dato in un momento difficile”, sette giorni prima che l’amministratore delegato della sua banca divenisse il nuovo Ministro dello Sviluppo del governo voluto proprio da Napolitano. Poi i sintomi mi si sono acuiti quando Barack Obama ha telefonato al Presidente della Repubblica per congratularsi dell’incarico a Monti prima ancora che Berlusconi si dimettesse, e io ho pensato che la nostra sovranità nazionale era diventata, per dirla con Céline, “una demagogica fottitura”. A quel punto i medici sono intervenuti e mi hanno preso in cura. Terapia intensiva a base di articoli quotidiani di De Bortoli e Riotta, di Repubblica e la Stampa, per tranquillizzarmi che tutto è a posto; che non bisogna dare retta a quel giornalino ininfluente che si chiama Financial Times, quando annuncia che, per le elite europee, “la democrazia ormai è un lusso antiquato”. Eppure, nonostante gli antibiotici cartacei continuo a pensare che la notizia di Milano Finanza, secondo cui il picco di spread che ha costretto Berlusconi a dimettersi è stato prodotto da vendite innescate da Goldman Sachs, possa essere credibile.
Ma tutto questo è passato remoto. Il presente è la manovra di 30 miliardi grazie alla quale, parola di Mario Monti, l’Italia non fallirà. Di sicuro non falliranno gli istituti di credito. Siccome il governo Monti non è il governo dei banchieri e nemmeno dei loro amici, il fatto che la manovra la paghino tutti tranne le banche è solo frutto della legge universale della causalità. Qualcuno mi ha risposto: allora sei un complottista. E lo so, sto in cura per questo. Poi però, prendendo una delle mie medicine quotidiane, il Corriere della Sera, ho letto che anche lì pensano la stessa cosa ma con una variante: il vantaggio che le banche ricevono da questa manovra dovrà servire a rilanciare il sistema finanziario che poi elargirà aiuti a imprese e famiglie come fossero bruscolini. Come no, ovvio. Ma ai miei occhi complottisti gli aiuti alle banche (sotto forma di garanzia dello Stato sui loro titoli di debito, di incremento obbligatorio dell’uso di carte di credito dato dalla tracciabilità dei pagamenti, di obbligatorietà di apertura di conti correnti per i pensionati e di estensione dell’imposta di bollo sui depositi finanziari) ha qualcosa di pornografico, in un momento in cui vengono cantate le virtù verginali delle tasse e dei tagli. Non solo, ma il mio complottismo mi fa immaginare che l’inevitabile crisi del mercato immobiliare (vera risorsa d’investimento degli italiani) dovuto alle nuove tassazioni sulla casa, spingerà sempre più liquidità nelle banche a riempire il loro ventre molle con il quale alimenteranno la loro politica di debito e di finanziamento di se stesse. La realtà è che bisogna non essere economisti bocconiani per vedere il carattere recessivo di questa manovra che di sviluppo non ha un’ombra, ed è finalizzata a tenere in vita non l’Italia, ma l’Euro ed il sistema finanziario che da esso si alimenta; non l’Europa, di cui non frega nulla a nessuno, ma una moneta senza Stato. L’economia ha cessato da tempo di essere “nomos della casa” strumento di produzione di ricchezza reale, di beni, di funzioni per una comunità. Essa è sempre più carta straccia e debito, moneta creata dal nulla da un sistema finanziario che ormai regola le nostre vite. Quelli come me sono complottisti, non perché vogliono esserlo, ma perché, come Jessica Rabbit, ci disegnano così. Potrebbero disegnarci in carne ed ossa, ma non conviene. Conviene pensarci un cartone animato anche se siamo più reali dei nostri disegnatori. Eppure non tutto è già scritto. Il barone di Montesquieu che la sapeva lunga diceva che “se si consulta la storia la si troverà piena di grandi avvenimenti imprevisti”. Chissà se gli sceneggiatori del cartoon fatto di spread, rating e indici hanno previsto il ritorno dei popoli alla realtà.

Di Giampaolo Rossi

Se quest'anno, per Natale, non sapete cosa regalare, comprate questo libro. Un libro italiano, che racconta una storia italiana, scritto da tre ragazzi che hanno deciso di raccontare, in modo estremamente originale, delle vicende del pool antimafia di Palermo, delle stragi, del rapporto Stato-mafia, le vicende che hanno colorato, a tinte fosche, alcune tra le pagine più buie della storia d’Italia. «Per oltre un decennio – leggiamo -  dalla fine degli anni Settanta all’inizio dei Novanta, Cosa Nostra ha accumulato potere, diventando l’organizzazione criminale più influente al mondo, e contemporaneamente ha dichiarato la propria guerra allo Stato: una guerra sempre meno sotterranea e sempre più violenta, di cui la strage di Capaci e quella di via D’Amelio rappresentarono il culmine».“Un fatto umano” è il frutto di uno studio meticoloso, durato circa 6 anni,  e che ha portato alla nascita di un fumetto, o meglio, di una "Graphic novel", i cui protagonisti sono rappresentati con un volto di animale: Riina e i corleonesi sono dei cinghiali, Buscetta un pappagallo, Sindona una gazza ladra. Quasi per ironia Falcone e Borsellino, i due amici inseparabili, sono un cane ed un gatto. Aedo della storia, che è narrata da un prosatore esterno, è Mimmo Cuticchio, il celebre puparo e cuntista palermitano.

«Era necessario immaginare un narratore esterno alla trama che tenesse le fila della storia, - racconta Manfredi Giffone, - ma scegliere un personaggio adatto allo scopo era tutt’altro che facile. Una notte d’estate del 2007 il mio amico Massimo Geraci mi ha portato a vedere uno spettacolo che si teneva al Palazzo D’Aumale di Terrasini: La riscoperta di Troia di Mimmo Cuticchio. La fama di Cuticchio lo precedeva, e vedendolo all’opera ho capito subito che sarebbe stato la voce narrante ideale per questa storia. Quando gliel’ho proposto, Mimmo ha generosamente acconsentito a prestare il suo volto al narratore».

«Questo libro – scrivono gli autori - è la storia di chi quella guerra l’ha combattuta dalla parte dello Stato, nel nome della giustizia. È la storia di chi in quelle stragi è morto, di chi ha rischiato ma ha trovato la forza nonostante tutto di proseguire la lotta, nella convinzione che, come ogni fatto umano, anche la mafia prima o poi avrebbe avuto una fine».

Si è recentemente concluso il primo incontro del progetto “Building Bridges”, finanziato dall’Ue per la promozione dell’apprendimento permanente attraverso lo scambio intergenerazionale. All’incontro, che si è svolto in Romania, presso la città di Iaşi, hanno partecipato volontari di tutte le associazioni aderenti, ovvero EuropaNet (Romania), Club of Košice Vital Seniors (Slovacchia), Adr-Vlaanderen (Belgio), Mesob Technical and Vocational High School Parents’ Association (Turchia) e l’associazione Tambour Battant (Francia).

Per quattro giorni i rappresentanti di queste associazioni hanno affrontato il tema dello scambio di conoscenze tra giovani e anziani, confrontando anche le singole esperienze vissute dalle diverse associazioni nelle rispettive realtà nazionali. L’intento è quello di costruire un ponte tra generazioni che possa servire per trasmettere cultura – intesa nel senso più vasto del termine.

«E’ stata un’occasione di conoscenza reciproca e di scambio di esperienze tra persone impegnate nell’associazionismo in Europa» racconta Marco, volontario italiano del Modavi che ha preso parte al progetto. «Sono tasselli come questo - continua - che vanno a ricostruire una identità europea fatta di un infinito mosaico di culture destinate a vivere insieme».

La prossima tappa di Building bridges sarà in Belgio, nelle Fiandre, a giugno 2012.

www.latestatanews.it


Tibet, Franco Battiato, estratta da Inneres Auge

Intervista a Giovanni Lindo Ferretti


Pubblichiamo un'interessante intervista a Giovanni Lindo Ferretti, ex cantante dei cccp poi csi e pgr. Oggi scrive per una rubrica de "L'avvenire" e parla di un mondo migliore legato al filo della tradizione. A volte le esperienze più strampalate riconducono lo spirito nella casa madre...

Li ricordo, ai tempi di Ko de mondo. Li ricordo in una fotografia scattata in Bretagna, dove si registrava il disco. Erano una truppa folta, ben assortita, vigorosa. Se il rock era una battaglia da affrontare, loro erano pronti. Avevano chitarre affilate e parole da scagliare come sassi. Erano tanti e agguerriti. Ne son rimasti tre. E da domani, nessuno più.
La notizia è che i PGR si sciolgono. E i PGR erano quel che rimaneva dei CSI, vale a dire il gruppo italiano più importante del suo tempo. E i CSI erano a loro volta la continuazione dell’esperienza dei CCCP. Fatte le somme, si chiude una storia fondamentale per il rock di casa nostra. I “superstiti” Giovanni Lindo Ferretti, Gianni Maroccolo e Giorgio Canali ci lasciano comunicando le Ultime notizie di cronaca, 9 canzoni scarne, asciutte, minimali che gettano uno sguardo intenso e anticonvenzionale sulle cose del mondo. Non è neanche più il lavoro di un gruppo, ma di tre individualità che s’incontrano in modo splendidamente disfunzionale. Li avvicino in due diverse occasioni: prima durante una conferenza stampa, poi per un’intervista faccia a faccia. Chiacchierare con Ferretti spazza via ogni stupidaggine sul suo profilo di profeta punk. Se lui è il canto, l’ateo Canali è il discanto, il diavoletto che gli va ironicamente contro. Dei tre, Maroccolo è il musicista per eccellenza e in quanto tale contrario a mettere fine a un’esperienza tanto feconda: risponde alle mie domande, ma pare stia cercando di parlare agli altri due. I tre incarnano la possibilità che persone diverse, ma di talento, possano non solo lavorare, ma anche creare bellezza. L’aria che si respira è quella della fine di una grande avventura. L’album di cinque anni fa si concludeva con la promettente Si può: «Me ne voglio andare per monti a camminare, essere migliore, lavorare, studiare». Il disco nuovo riparte da lì: dalla montagna, da Cerreto Alpi, mille anime, provincia di Reggio Emilia. La musica rock sta giù a valle e per Ferretti è oramai un punto remoto.


È un disco fatto per dovere, questo, ma non per obbligo.
Ferretti: «È frutto di un contratto del 1997, che fino all’ultimo non volevo nemmeno firmare. È stato un onore e un onere. Ero in difficoltà: non credevo di avere cose da esprimere. Sono stati Gianni e Giorgino a stimolarmi inviandomi le musiche che avevano scritto separatamente. Non è stato un lavoro artistico, ma di artigianato».
In passato era diverso?
Ferretti: «Sì. In passato eravamo un gruppo di amici che vivevano insieme, si confrontavano, discutevano. Quando c’era da fare un disco interrompevamo la nostra vita e ci riunivamo in un luogo deputato alla musica dove mangiavamo, suonavamo, litigavamo. Ora invece ho sperimentato il telelavoro: ci siamo visti a casa di Gianni una decina di giorni, per lavorare poi in assoluta solitudine».
Canali: «Lui è uno che non legge neanche le e-mail».
Ferretti: «Me le devono portare a mano».
D’anime e d’animali era un disco di pancia, rock. Questo è più minimale, senza nemmeno un batterista. È un accidente o una scelta?
Ferretti: «È un progetto che loro due coltivavano da tempo».
Canali: «Tabula Rasa Elettrificata doveva essere fatto così, con multitracce che giravano a staffetta fra i musicisti: ognuno avrebbe aggiunto la sua parte. Non lo si fece per motivi economici: eravamo in tanti e molti avrebbero dovuto essere affiancati da un tecnico del suono».
Maroccolo: «Da tempo andavamo in questa direzione. Poi non se n’è mai fatto nulla perché è difficile tirar fuori una sintesi da sei persone con una personalità forte. Quel che siamo riusciti a fare in passato ha qualcosa di eroico».
Ferretti: «Le canzoni mal riuscite sono quelle in cui non si è riusciti a mettere insieme due idee contrarie. Come Io e Tancredi: le parole sono strepitose, ma la canzone è tremenda».
È un disco di testi forti: in quale misura li sposate?
Maroccolo: «Giovanni è in uno stato di lucidità assoluto. Sottoscrivo i suoi testi al 100%: quelli di oggi e quelli del passato. Non faccio parte del coro che si meraviglia dei suoi cambiamenti».
Canali: «Anche perché obiettivamente i cambiamenti sono finti, virtuali. Mi piace una cosa che ha detto Giovanni: faccio lo stesso disco da vent’anni. Per contenuti e atmosfere Ultime notizie di cronaca non è diverso da Linea gotica».
Ferretti: «Quando c’erano Massimo Zamboni e Francesco Magnelli mi ponevo il problema di trovare una mediazione nelle mie parole. Dovevo raccontare anche loro. Il problema questa volta non s’è posto: ho chiuso ogni cronaca pensando a me».
Perché allora buttare via il gruppo?
Maroccolo: «A me viene da parafrasare il testo di Non torna: a me non torna niente, niente torna mai. Non lo capisco perché ci stiamo sciogliendo. Non capisco perché non suoniamo. Diversamente da loro, non ho vissuto questo disco come un obbligo».
Ferretti: «Non c’è niente che riguardi noi, il nostro stare insieme. È la vita che ha preso altre strade. E la mia vita è dominata da un grande dovere: ho una madre molto malata, da un anno e mezzo mi dedico esclusivamente a lei. In ogni caso farei fatica a uscire dal mio quotidiano per entrare in una dimensione riconducibile al rock’n’roll. Mi si addice piuttosto l’inanellare parole: quello lo faccio con piacere e tensione, tant’è che su certi testi non ci dormo la notte. Sono tre anni che giro con due tipologie di spettacoli musicali: o voce e violino o due voci maschili, organetto e violino. Non frequento le città, solo la provincia: pievi di montagna, cortili di palazzi rinascimentali, sale di castelli, piccoli teatri. Lo spettacolo si chiama Bella gente d’Appennino, è una ricerca sul potere della voce e una riflessione sul vivere in montagna. Potrebbe uscire un live. Inoltre, debbo un secondo libro alla Mondadori».
E che ne pensi, Giorgio, dello scioglimento?
Canali: «Abbiamo dato tutto. Abbiamo svuotato il magazzino. Io non mi sono mai sbilanciato, lo faccio adesso: Ultime notizie di cronaca è la cosa più bella che abbiamo fatto insieme, anche se loro non saranno d’accordo...».
Maroccolo: «Questi sono i PGR: uno pensa che l’altro stia pensando qualcosa... Sono anni che andiamo avanti così (risate, nda)».
Non siete mai stati un gruppo unito, tipo gang?
Maroccolo: «Mai, neanche ai tempi dei CSI».
Ai tempi di Ko de mondo sembravate un esercito...
Ferretti: «Ma un esercito non è un gruppo. Quante litigate... E loro che si aspettavano sempre una mia crisi nervi...».
Maroccolo: «Una dinamica così non può funzionare se vuoi fare un vero gruppo. Siamo stati longevi – e chissà se lo saremo ancora in qualche altra forma – proprio per questo motivo. Anche Giovanni che essendo un cantante...».
Ferretti: «Un cantore...».
Maroccolo: «Anche lui, che a volte non tollera i musicisti, non può prescindere dalla musica. Magari non con noi, ma è destino che faccia ancora musica. Perché è unico. Fa il falso modesto, ma sarà ricordato nella storia della musica non solo italiana per un modo di cantare che è solo suo».
Com’è nato questo salmodiare?
Ferretti: «Non lo so, non lo so».
In questo disco risalta ancora di più...
Maroccolo: «Era ora».
Ferretti: «Oh, queste registrazioni sono nate alla prima, alla seconda prova».
Qui non c’è alcuna ricerca melodica, nel canto.
Ferretti: «Per un periodo sono stato fortunato perché ho avuto come maestri di canto prima Magnelli, poi Ginevra Di Marco. Mi hanno insegnato ad apprezzare la musica. Queste sono invece cronache: mi sarei vergognato ad arricchirle di melodie. Ascolto i cantanti giovani: cantano benissimo, ma fanno cagare, sono cloni. Ci vorrebbe una bella sbattuta come fu il punk».
L’idea di fare cronaca è nata subito?
Ferretti: «Sì, è antecedente alla raccolta del materiale. Da anni ormai ho capito che il mio approccio alla parola è la cronaca in senso medievale».
L’inizio con Cronaca montana trasmette un senso di pacificazione.
Ferretti: «Quel pezzo racchiude il disco. È la canzone più swing che abbia fatto. Swing per me che sono stato squadrato con l’accetta e rintuzzato col martello. È ariosa. Sono i miei ultimi cinque anni di vita».
Maroccolo: «È la prefazione del disco».
Le canzoni nascono da esperienze personali.
Ferretti: «Le parole di Cronaca filiale erano inimmaginabili prima che cominciassi a prendermi cura di mia madre. Lei reggeva il mondo: era impensabile che adesso io regga lei».
Non interviene una forma di pudore nell’esporre un testo così personale?
Ferretti: «No, ed è un pensiero che ho maturato al tempo dell’agonia di Giovanni Paolo II. Ne parlai con Gianni e convenimmo che si mostrava sì, ma con pudore. Lo vedevamo con la bava alla bocca, ma era il nostro Papa. Mi fa senso il fatto che i bimbi non debbano vedere i morti o i malati. La vita ha una sua ragion d’essere, anche se magari non la capiamo tutta. Il raccontare di una madre che non esiste più se non come immagine è come il Papa che permette alle telecamere di riprenderlo. Non manca di pudore chi si mostra per quello che è. Le parole di Cronaca filiale sono state pesate. Poche parole come “Lesto nel pudore, audace in tenerezza” raccontano scene irraccontabili in altro modo. Essere figlio o padre è un’esperienza incredibile, se uno è in grado di apprezzarla. Ti dà accesso a una comprensione della vita meno superficiale. Confrontarsi con il dolore fa parte del vivere».
In Cronaca del 2009 canti di essere «fecondi d’aborto» e di «democratiche soluzioni eutanasiche»...
Ferretti: «Chi mi segue – perché mi vuol bene o mi detesta – sa che sono cose che mi stanno a cuore. Ripensando alla mia stessa vita, mia madre avrebbe potuto abortire per centomila buoni motivi. E mi sembra faticoso e difficile discutere sul fine vita: difficile, sì, ma doveroso. Non sono un politico, lo faccio perché mi tocca di persona. Offro alla riflessione un pezzo della mia storia personale, parlo di queste cose perché le sperimento quotidianamente».
Pensi che oggi la vera guerra si combatta sul significato dell’esperienza umana?
Ferretti: «Si combatte sul significato delle parole. In Spagna Zapatero ha fatto una legge per cui non è più possibile utilizzare i termini “padre” e “madre”, ma si usa un termine “genitoriale” indifferente al sesso. Cazzo, questa è una guerra con la storia dell’umanità e con l’esistenza degli uomini. Non sono pacifista, per cui se per legge non posso parlare di padre e madre, io ti faccio fuori. Ho un problema con i pacifisti dal tempo in cui ci fu l’embargo di tre anni a Sarajevo: una città obbligata a morire senza potersi armare e difendere, tre anni sotto i bombardamenti in onore della pace. Non ci sono mai state così tante guerre al mondo e non c’è mai stato un tale abuso del termine pace. Affanculo! Se cerchi di distruggere il mio paese, io cerco di armarmi e difendermi. È esperienza umana, animale, religiosa, quel che vuoi».
In questo senso il nuovo album aggiorna il discorso di D’anime e d’animali...
Ferretti: «Per quanto mi riguarda aggiorna il discorso di Affinità e divergenze tra il compagno Togliatti e noi. Mi torna tutto: i cambiamenti stanno nella logica della vita. Questo è il disco che regalo ai miei dieci amici che non vedo da un anno e mezzo perché non uso telefono, né e-mail: c’è tutto quello che devo dire. Sono le lettere che non ho spedito».
Le devi spedire anche a Giorgio e a Gianni? Voglio dire, c’è una discussione tra di voi di certi temi?
Maroccolo: «Non si discute dell’acquisito. Ognuno capisce quel che vuole capire».
Ferretti: «Io mi stupisco di come i loro strumenti dicano le cose che dico io, però con la musica».
Canali: «Del resto Giovanna d’Arco sentiva le voci... (risate, nda)».
Ma questo non dirsi le cose non sconfina nella mancanza di comunicazione?
Ferretti: «In teoria hai ragione. Ma nella pratica la bontà di questo disco dimostra che non è così. Io in cinquant’anni non ho mai abbracciato mia madre: questo non mette in discussione il fatto che sono suo figlio».
In Cronaca di guerra II dici che la «riffa diplomatica mette in palio il Nobel»...
Ferretti: «A volte sembra che guerra e pace siano difficilmente distinguibili. Quando una cricca diplomatica decide che il Nobel per la pace può essere dato ad Arafat e non a Giovanni Paolo II, io dico: tenetevelo, il vostro Nobel».
Che ne pensi del nuovo Papa?
Ferretti: «Sono molto legato a Benedetto Decimosesto. Dopo aver letto su Manifesto e Repubblica insulti all’allora Cardinale Ratzinger, mi sono chiesto: chi è che si prende le ire di tutti? Sono entrato in una libreria cattolica e ho comprato tutti i suoi libri in italiano, nove. È stata una sorpresa incredibile. Mi sono molto affezionato al suo pensiero e alla sua persona. Ho ritagliato una sua foto e l’ho appesa in casa. Ho scoperto il mio maestro».
Quanto c’è in tutto questo del gusto punk dell’andare contro?
Ferretti: «È una mia profonda ragion d’essere. Il mio interesse per il mondo nasce più dal negativo che dal positivo. Entro nelle cose della vita dalla porta secondaria del cattivo gusto».
Oltre alla parte teologica, ti sono piaciuto anche le sue mosse da Pontefice?
Ferretti: «Ne sono molto contento. Se posso vado a Roma a prendermi la benedizione del Papa la domenica. Comunque, me la prendo dalla televisione».
Pensi abbia un’ingerenza nella politica?
Ferretti: «Il Papa deve fare il Papa: deve dire la verità della Chiesa, non deve andare d’accordo con la società. È difficile farlo dopo Giovanni Paolo II che aveva un legame fortissimo coi media. Condivido anche le idee sull’uso del preservativo. Ma siete stati in Africa? Avete mai preso in mano un preservativo? Avete visto le mani di un africano? Al continente africano serve un approccio diverso alla vita, alla corporalità, al mistero della femminilità e della mascolinità».
Mi stupisco ogni volta delle reazioni violente alla tua evoluzione. Cos’è che scatena la gente?
Canali: «Si chiama stupidità. Una generazione intera cantava davanti al palco dei CCCP “Madre di Dio e dei suoi figli” e si è accorta vent’anni dopo che lui è cattolico: ma per favore!».
Ferretti: «Alla Virgin ci dissero che Madre non potevamo permettercela, per via del nostro pubblico. L’Antonella (Annarella, nda) rispose: fatevi i cazzi vostri, ché tanto tutti la canteranno col pugno alzato. Oh, è esattamente quello che succedeva. Come mi disse un prete: Ferretti, la gente è stupida».
Maroccolo: «Unità di produzione diceva: peggio di così (col comunismo, nda) non poteva andare. Eppure 8 mila persone l’ascoltavano col pugno alzato. Cazzo capivano quelli? Chi è fottuto dall’ideologia vive in un mondo che non ha niente a che fare con la vita reale».
Ferretti: «Però incontro in amicizia persone che hanno scritto cose orribili su di me. La vita è di più della professione delle idee che facciamo su di essa».
L’album si chiude in bellezza con Cronaca divina, un testo che non stonerebbe in una liturgia e che comprende il Te Deum.
Ferretti: «Ho chiesto a Giorgio una chitarra miscredente, forte, che desse idea della complessità. È un sibilo fastidioso, ma quando cominci a seguirla ti rendi conto che non è molto lontana dalle mie parole. Il Santus è una mia preghiera quotidiana: l’ho registrata sul vuoto e ho detto a loro due di farne quel che volevano».
Cronaca divina è una professione di fede.
Ferretti: «È esattamente quello».
Però si conclude con la frase «Eli Eli lama sabactani»,  «Dio, perché mi hai abbandonato?».
Ferretti: «Non sono un santo, sono un peccatore e come tale percepisco nella mia vita l’abbandono di Dio. Vivere è un casino. E quella è l’ultima frase che Dio nella sua manifestazione umana dice durante la sua vita terrena».
Canali: «Imbarazzante il paragone, eh?».

giovedì 8 dicembre 2011

Il diario di celio, l'appennino e il sogno (vuoto?) americano


 Arrivano per posta, consegnati a mano alla fine dei concerti, me li portano a casa: canzoni, poesie, racconti, qualche romanzo, qualche saggio. Mi si chiede un giudizio, si aspira ad una presentazione, una prefazione, un intervento qualsiasi. Rispondo sempre: - no -. Non sono un critico letterario, non so dare consigli; scrivo per mio piacere, rasenta la necessità o il dovere, in ambito strettamente personale. Celio Tronconi è un mio compaesano, mi precede di una generazione, per un anno ha scritto il diario della sua vita; fermandomi per strada mi raccontava delle sue intenzioni e del suo procedere, poi l'ha finito e mi ha portato la prima stesura, l'ho letto e riletto e mentre pensavo come aiutarlo per la stampa ho trovato il suo libro in vendita nei bar e nei tabacchini della zona. "Il diario di Celio" comincia nel 1933, a ventesimo secolo già inoltrato e lo racchiude. E' scarno, lapidario, non contiene alcuna descrizione ma brevi pensieri, ricordi di accadimenti. E' pieno di fotografie a cui tiene molto. La più bella è la foto di famiglia e vale un saggio storico: la madre e la sorella corrispondono ad una iconografia ancora perfetta per illustrare la vita di Santa Giovanna d'Arco o Santa Genoeffa; i due fratelli più grandi sono immagine del secolo delle ideologie che stanno straziando il mondo, uno stile e un portamento tra il bolscevico e il nazista a misura di bimbo; i due più piccoli sembrano anticipare il baby boom e il miracolo italiano del dopoguerra. Quello che non è accettabile nella memorialistica sui tempi andati è la confusione, in parte voluta in parte subita, tra le cose e gli usi di una volta e la tradizione. Chi ha vissuto nel secolo XX non conosce la tradizione ma il suo tradimento conclamato e rivendicato. Celio vive e racconta di un tempo già trasformato, irrimediabilmente chiuso ad un passato che non osa nemmeno immaginare per non mettere a rischio le proprie certezze. Racconta di un borgo di montagna, estrema periferia del progresso, in cui troppo è già stato distrutto ma molto resta da fare per accedere al sol dell'avvenire. Chi potrebbe raccontare il mondo com'era, anche se già alla fine, sono i vecchi della sua infanzia: Francchin, la Jusfina, Gigi il brutto, il Meciai, ma per loro c'è il Paradiso in Cielo non la testimonianza in terra. Succedono ancora cose strane come la formaggetta rifiutata al frate e il latte che non vuol più cagliare. E' ancora in atto, perenne dissidio contenuto da usanze e buonsenso, la guerra tra pastori e agricoltori ma si stanno costruendo le fabbriche e gli uni e gli altri sono già destinati a diventare proletariato. Come guizzo fuori tempo, ma siamo montanari quindi in ritardo, scoppia a Scorgacan, e Celio l'intravede, l'ultima battaglia per i pascoli ma ci vorrebbe un bardo o un cantore delle steppe e montagne d'Asia per raccontare le gesta dei pastori guerrieri di Cerreto e Succiso. Tempo a scadere per la democrazia tradizionale: «la regola, detta statuto, dettata dai capifamiglia ed approvata per alzata di mano», filosofi e politici hanno già deciso che ben altri sono i diritti e i doveri del moderno cittadino. Affiora tra lasagne ribassate per l'altitudine dell'Alpe e scarpe scambiate alla fiera di Sant'Ambrogio un'eco boccaccesca di arguzia popolana. Pochi e fulminanti accenni sociali: «con gli americani arrivò il boogie boogie che imparai subito», «con gli amici si andava a fare gli americani». Eccolo il sogno italiano: il benessere materiale, giubbotti moto e macchine, godersi la vita. Fare gli americani. Come non essere d'accordo? - Durarala? - direbbe Celio e con lui l'antica saggezza di un popolo estinto. Senza storia, senza memoria condivisa non c'è comunità, non c'è società, e la vita si consuma in uno sforzo di volontà che cumula il vano sul vuoto.

Giovanni Lindo Ferretti

giovedì 3 novembre 2011

Il Partito comunista cinese insegna ai tibetani come essere bravi buddisti


Le autorità cinesi moltiplicano le iniziative di indottrinamento dei religiosi tibetani. Continua la dura repressione contro chi non rispetta le regole. Decisa condanna delle Nazioni Unite che chiedono a Pechino di cessare la repressione. Arrestato in Nepal chi prega per i monaci autoimmolatisi.

Dharamsala (AsiaNews/Agenzie) – La Cina approva una legge per imporre a tutti i monaci tibetani regole su come essere bravi monaci e rispettare il potere cinese. Intanto il 1° novembre un gruppo di inchiesta delle Nazioni Unite ha accusato Pechino di avere imposto una tale persecuzione sui monasteri tibetani da indurre diversi monaci a darsi fuoco quale estrema protesta.

Il 30 ottobre il governo cinese del Tibet ha approvato una legge per intensificare i controlli su monasteri e conventi tibetani. Sarà vietato a monaci e monache partecipare a qualsiasi “attività separatista” e ci saranno frequenti corsi obbligatori per insegnare come comportarsi. Ogni anno chi ha meglio obbedito a queste regole sarà proclamato “monastero modello”, con premi in denaro e attestati di benemerenza per i monaci.

Il 20 ottobre nella contea Chushul, a Lhasa, è stata inaugurata l’Università del buddismo tibetano. Il segretario del Partito comunista del Tibet, Chen Quanguo, ha detto che l’università “produrrà monaci ben istruiti verso la ‘cricca del Dalai Lama’ e ‘gli altri problemi secessionisti’.”
L’attuale Dalai Lama, capo spirituale del buddismo tibetano, premio Nobel per la pace, è ritenuto da Pechino un “pericoloso terrorista e separatista”. Anche avere soltanto  una sua foto o un suo scritto è punito con anni di carcere .

Ancora Chen è intervenuto il 28 ottobre a un forum a Lhasa della Associazione buddista ripetendo le critiche alla “cricca del Dalai Lama” e indicando la “risoluta volontà di eliminare il 14mo Dalai Lama dal buddismo tibetano”. Ha ribadito l’intenzione di creare “un armonioso Monastero modello”.

Sono anni che Pechino vuole imporre ai monaci tibetani la totale fedeltà al Pc, dopo avere constatato che i monasteri sono il fulcro della cultura tibetana e della fedeltà al Dalai Lama. Da mesi molti grandi monasteri, come quello di Kirti e altri nella contea di Aba (Sichuan), sono sottoposti a un’occupazione poliziesca di fatto con centinaia di monaci trasferiti per ignota destinazione, molti altri arrestati. La repressione è talmente feroce che negli ultimi mesi diversi monaci si sono dati fuoco in piazza quale gesto di protesta estrema.

Il 1° novembre a Ginevra un gruppo di inchiesta delle Nazioni Unite per la tutela dei diritti umani ha accusato le autorità cinesi di “gravi restrizioni delle libertà di religione, espressione e associazione” verso i monaci tibetani, con centinaia di monaci costretti a lasciare i monasteri e “molti arrestati o fatti sparire”, con “violazione della legge internazionale” e “pratiche odiose in nessun modo giustificabili”. A Pechino è chiesto di cessare queste attività e alleviare la tensione che ha causato l’autoimmolazione di 9 monaci e una monaca negli ultimi mesi.

Ma la Cina appare procedere per la sua strada e trova l'appoggio di Paesi "amici". Il 1° novembre a Kathmandu la polizia ha arrestato oltre 100 esuli tibetani che si erano riuniti presso il Centro rifugiati tibetani per pregare per i monaci autoimmolatisi. La polizia ha fatto irruzione nei locali, buttando giù uno striscione con l’effige del Dalai Lama.

Sempre il 1° novembre a Kathmandu fonti tibetane denunciano l’arresto di 61 rifugiati che hanno protestato in strada chiedendo la fine della repressione cinese in Tibet. Gli arrestati hanno proclamato lo sciopero della fame e sono stati rilasciati la notte.

In Nepal ci sono decine di migliaia di profughi tibetani. Il governo nepalese negli ultimi anni ha vietato qualsiasi dimostrazione contro “nazioni amiche” come la Cina.

fonte: Asianews.it

L'impero del male



Non ha soste la persecuzione contro gli intellettuali tibetani. Il tribunale di Barkham (in cinese: Ma’erkang), nella prefettura di Ngaba (Aba) in Sichuan, ha condannato nei giorni scorsi a 3 anni di carcere l’insegnante e scrittore tibetano Jolep Dawa, 39 anni (nella foto). Fonti tibetane riferiscono che nemmeno si conoscono le accuse, né le ragioni per cui Dawa è detenuto dal 1° ottobre 2010. Egli è editore della rivista in lingua tibetana Durab Kyi Nga (I, of this Century) ed organizzatore di conferenze culturali tibetane. Secondo queste fonti, egli pochi giorni prima della condanna ha potuto vedere la moglie e i figli, ma anche a loro è proibito parlare della sua detenzione. Dopo l’arresto, la polizia ha confiscato il suo computer e tutti i diari e i suoi scritti letterari. Dawa è stato già detenuto negli anni scorsi. Dapprima, per un mese, perché coinvolto in una campagna contro l’uso di pellicce di animali tibetani per fare vestiti. Poi per 3 mesi dal marzo 2008. Il 19 ottobre la polizia ha anche arrestato, nella sua casa nella contea Yatsi, il giovane scrittore tibetano Choepa Lugyal Aka Meche, noto per il suo prolifico lavoro di saggista e commentatore politico. Non si conosce l’accusa, la polizia ha perquisito l’abitazione portando via il computer e una copia del libro tibetano “Shar-dungri”, proibito dalle autorità. Il Tibet da anni è sottoposto a un continuo controllo militare e isolato dal mondo, con censura e taglio di internet e linee telefoniche mobili e fisse. La persecuzione cinese da tempo ha preso di mira gli intellettuali tibetani, che molto contribuiscono a tenere viva la ultramillenaria cultura e lingua del Tibet. A giugno un tribunale di Karze, prefettura di Aba, ha condannato a 4 anni di carcere lo scrittore ed editore Tashi Rabten, per avere aiutato a pubblicare la rivista “Eastern Conch Mountain”. Nei giorni scorsi il Dalai Lama, leader spirituale dei buddisti tibetani, ha ripetuto che “Non vogliamo separare il Tibet. Vogliamo l’autonomia solo per preservare la nostra cultura, lingua e religione”, alludendo alla sistematica repressione cinese contro la cultura e la religione tibetana. Intanto il 14 ottobre la polizia ha arrestato il monaco Geshe Tsultrim Gyatso del Monastero Amdo Ditsa, nella prefettura di Tsolho (Hainan) provincia di Qinghai. Gyaltso da 10 anni è amministratore capo del monastero e per anni ha insegnato nelle scuole tibetane della zona. Nei giorni scorsi è stato pure arrestato il monaco Lodroe, 36 anni, del monastero di Kirti. Se ne ignora la sorte.

Fonte: Asia News, 31 ottobre 2011

martedì 1 novembre 2011

To Ezra



Con Usura nessuno ha una solida casa
di pietra squadrata e liscia
per istoriarne la facciata,

con usura

non v'è chiesa con affreschi di paradiso
harpes et luz
e l'Annunciazione dell'Angelo
con le aureole sbalzate,

con usura

nessuno vede dei Gonzaga eredi e concubine
non si dipinge per tenersi arte
in casa ma per vendere e vendere
presto e con profitto, peccato contro natura,

il tuo pane sarà straccio vieto
arido come carta,
senza segala né farina di grano duro,
usura appesantisce il tratto,
falsa i confini, con usura
nessuno trova residenza amena.
Si priva lo scalpellino della pietra,
il tessitore del telaio

CON USURA

la lana non giunge al mercato
e le pecore non rendono
peggio della peste è l'usura, spunta
l'ago in mano alle fanciulle
e confonde chi fila.

Pietro Lombardo
non si fé con l'usura
Duccio non si fé con l'usura
né Piero della Francesca o Zuan Bellini
né fu "La Calunnia" dipinta con usura.

L'Angelico non si fé con usura, né Ambrogio de Praedis,
nessuna chiesa di pietra viva firmata :"Adamo me fecit".

Con l'usura non sorse Saint Trophine e Saint Hilaire,

Usura arrugginisce il cesello
arrugginisce arte ed artigiano
tarla la tela nel telaio, non lascia tempo
per apprendere l'arte d'intessere oro nell'ordito;
l'azzurro s'incancrena con l'usura; non si ricama
in cremisi, smeraldo non trova il suo Memling

usura soffoca il figlio nel ventre
arresta il giovane drudo
cede il letto a vecchi decrepiti,
si frappone tra giovani sposi

CONTRO NATURA
Ad Eleusi han portato puttane
carogne crapulano
ospiti d'usura.

mercoledì 26 ottobre 2011

Il fuoco del Tibet arde ancora


È il 10mo monaco ad auto immolarsi in un anno. Portato all’ospedale, rifiuta ogni cura e vuole lasciarsi morire. Pechino accusa il Dalai Lama di fomentare i suicidi. Ma in realtà i giovani che si autoimmolano sono frustrati dalla repressione.

Dharamsala (AsiaNews) - Un monaco tibetano si è cosparso di kerosene e si è dato fuoco nella regione del Sichuan, in protesta contro l’oppressione cinese e gridando “Viva il Dalai Lama!”. Portato all’ospedale, rifiuta ogni cura e desidera essere lasciato morire.

Secondo fonti locali, raccolte da Radio Free Asia, il monaco si chiama Dawa Tsering, aveva 31 anni e ha compiuto il gesto davanti al monastero di Kardze (Ganzi, in cinese), nella prefettura tibetana del Sichuan, dopo aver gridato ai monaci presenti di rimanere uniti contro il governo di Pechino.
Altri monaci lì presenti hanno dichiarato di averlo sentito gridare “Viva il Dalai Lama!”.

I monaci sono riusciti a salvare il corpo dalle fiamme e hanno trasportato Dawa Tsering all’ospedale di Kardze, seguiti da un gruppo di poliziotti. All’ospedale sono arrivate in massa le forze di sicurezza che hanno isolato la zona.

Un monaco lì presente ha detto che Dawa Tsering rifiuta ogni cura, ha il volto e la pelle del corpo bruciata e coperta di bende. Egli chiede di essere lasciato morire.

Dawa Tsering è il 10mo monaco quest’anno che tenta di morire dandosi fuoco; il maggior numero nelle ultime settimane. Almeno cinque di loro hanno raggiunto il loro intento, morendo. La scorsa settimana si è data fuoco una monaca, Tenzin Wamgmo, di circa 20 anni. Era la prima volta che una donna si auto immola.

Pechino accusa il Dalai Lama di provocare queste morti e lo addita come fomentatore di disordini e di divisione nel Tibet. Il capo spirituale del buddismo tibetano è bollato come “un lupo travestito da agnello”, che vuole dividere il Paese. In realtà, da tempo, il Dalai Lama chiede solo un’autonomia relativa del Tibet e la salvaguardia culturale e religiosa del suo popolo.

Alcuni giorni fa a Dharamsala, nella città dove è esiliato, il Dalai Lama ha tenuto una giornata di preghiera e digiuno per coloro che si sono immolati. Diverse autorità tibetane tengono a precisare che il suicidio è contrario alla loro fede e che il gesto di questi giovani monaci è dovuto alla repressione cinese e a una non profonda conoscenza del buddismo

Pechino accusa il Dalai Lama: Incita al suicidio
Il governo comunista, ateo e contrario alla libertà religiosa, parla di violazioni alla “morale” e alla “coscienza” nei casi di auto-immolazione dei monaci buddisti in Tibet. Una fonte locale: “Il regime ha distrutto le basi della nostra religione, assolutamente pacifica, in Tibet. E questo è il risultato”.

Pechino (AsiaNews) – Il governo comunista cinese, ateo e contrario alla libertà religiosa, ha accusato “la cricca del Dalai Lama” di “andare contro la morale” nell’incitare i monaci tibetani ad immolarsi tramite il fuoco: “I casi di immolazioni sono contrari alla morale e alla coscienza, e dovrebbero essere condannati” ha affermato la portavoce del ministero degli esteri cinese Jiang Yu in una conferenza stampa.

Dall’inizio del mese, otto monaci e una monaca buddisti si sono suicidati o hanno tentato di farlo col fuoco. Quasi tutti i casi si sono verificati nella prefettura di Aba, zona cinese ad alta popolazione tibetana nella provincia del Sichuan, ai confini con il Tibet. Le critiche cinesi si sono scatenate dopo che a Dharamsala – sede indiana del governo tibetano in esilio – il leader del buddismo tibetano ha guidato una elaborata cerimonia e un digiuno di preghiera lungo un giorno “per commemorare, con spirito di solidarietà, i nostri fratelli morti”.

Alla cerimonia ha partecipato anche il primo ministro tibetano, Lobsang Sangay, che ha dichiarato: “Noi rendiamo omaggio al loro coraggio e siamo solidali con il loro spirito indomabile”. Le vittime sono Lobsang Phuntsok (20 anni), Tsewang Norbu (29), Khaying (18), Choephel (19) e la monaca Tenzin Wangmo (20): tutti loro sono morti per combustione. Le preghiere sono state indirizzate anche a Lobsang Kelsang (18), Lobsang Kunchok (19), Kelsang Wangchuk (17), and Norbu Damdul (19): di questi non si conosce la sorte. Il premier ha chiesto all’Onu di inviare un team che raccolga informazioni su questi monaci.

Tutti i religiosi appartengono al monastero di Kirti, nella zona della cittadina di Ngaba. Questo luogo di culto è stato fondato relativamente poco tempo fa da un abate che, in precedenza, lavorava come bibliotecario nel monastero del palazzo Potala, sede dei Dalai Lama in Tibet. Questo abate, spiega una fonte locale ad AsiaNews, “non è un grande studioso, ma un uomo molto politicizzato. Inoltre vive a Dharamsala, dove si trova in realtà la sede principale del monastero”.

Il suicidio rituale, in effetti, non appartiene alla tradizione o all’insegnamento buddista: “Soltanto i seguaci del sentiero del diamante – spiega ancora la fonte – potrebbero in qualche modo tollerarlo, ma si tratta di pochissime persone che non esistono quasi più, come congregazione. Qui siamo davanti a un fenomeno completamente diverso, in cui bravi giovani si trovano stretti fra un regime repressivo e una religione insegnata nel modo sbagliato”.

In effetti, conclude la fonte, “se si deve accusare qualcuno di incitare al suicidio, questo qualcuno è il governo cinese. Se non avessero distrutto la nostra cultura e la nostra fede, massacrando monaci e abati per sostituirli con burattini teleguidati, non si sarebbe mai verificato un fenomeno del genere. Il buddismo tibetano insegna la pace e la non violenza. Sono loro che l’hanno distrutto”. 

martedì 25 ottobre 2011

L'ultimo messaggio


Gheddafi scrisse a Berlusconi
L'ultimo messaggio il 5 agosto: «Ferma le bombe»
Le salme del rais e del figlio sepolte segretamente

MILANO - «Caro Silvio, ferma i bombardamenti». Lo scoop è del settimanale francese Paris Match: si tratterebbe, secondo il giornale, dell'ultimo messaggio inviato in Occidente da Muammar Gheddafi. E il destinatario sarebbe proprio il leader italiano Silvio Berlusconi. La lettera risale al 5 agosto, quando le sorti della guerra in Libia non erano ancora state decise dalla presa di Tripoli. Ma il governo lealista era in grande difficoltà. La lettera fu inviata al premier italiano «attraverso i tuoi connazionali che sono venuti qui per sostenere la nostra causa». Secondo il periodico francese i latori del messaggio sarebbero stati Alessandro Londero e sua moglie Yvonne di Vito, responsabili della Hostessweb, l'agenzia di ragazze che animarono le ultime visite del colonnello in Italia.

IL MESSAGGIO - Nonostante le pubbliche minacce all'Italia, privatamente il rais esprime sentimenti di amicizia per l'amico che solo qualche mese prima l'aveva accolto con tutti gli onori a Roma. Si dice sorpreso «per l'atteggiamento di un amico con cui avevo sottoscritto un trattato di amicizia reciproca tra i nostri popoli». Ma non rimprovera il Cavaliere: «Non ti biasimo per ciò di cui non sei responsabile, perché so bene che non eri favorevole ad un'azione nefasta che non onora né te né il popolo italiano». Quindi la speranza «di poter ancora far marcia indietro». E l'appello: «ferma il bombardamento che uccide i miei fratelli libici. Parla con i tuoi alleati per pervenire ad una soluzione che garantisca il mio popolo da questa aggressione». Infine la promessa: «Stai certo che sia io che il mio popolo siamo disposti a dimenticare e a voltare pagina».

LA SEPOLTURA - Intanto, la salma di Gheddafi e del figlio Mutassim sono state portate via dalla cella frigorifera del mercato di Misurata. Secondo fonti del Cnt, saranno seppellite all'alba di martedì in un luogo segreto. Con loro ci sarà un religioso per assicurare il rito funebre secondo i precetti islamici. La decisione è stata presa perché non è stato raggiunto alcun accordo con la tribù Qaddafiya del Colonnello sulla consegna del corpo.




corriere.it

Non c'è niente da ridere signor sarkò

(ANSA) - ROMA, 25 OTT - Il generale Leonardo Tricarico, ex
capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, ha restituito oggi alla Francia la Legion d’Onore, una delle più prestigiose onorificenze francesi, assegnatagli per il ruolo svolto durante la guerra in Kosovo: un gesto con cui l’alto ufficiale, che è stato anche consigliere militare di tre diversi presidenti del Consiglio (D’Alema, Amato e Berlusconi), intende protestare contro «l’irriguardoso comportamento» del presidente Sarkozy l’altro giorno a Bruxelles.

venerdì 21 ottobre 2011

Onore e armi in pugno. Come sanno morire i nostri nemici, nessuno



Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. Come ha saputo morire il rais, armi in pugno, lo sapevano fare solo i nostri. Come a Bir el Gobi quando con onore, dignità e coraggio sorridevano alla morte. Fosse pure per fecondare l’Africa.

Sarà tutto tempo perso, dunque, sporcarne gli ultimi istanti, gravarne di dettagli i resoconti e anche quel disumano reportage sul volto fatto strame – tra sangue e calcinacci – non potrà spegnere il crepitare della mitraglia. Perché come ha saputo morire Muammar Gheddafi – così ridicolo, così pacchiano e così a noi ostile – come ha saputo farsi trovare, straziato come un Ettore, solo il più remoto degli eroi dimenticato nell’Ade l’ha saputo fare.
Come i nostri eroi. Come nel nostro Ade. Proprio come seppe morire Saddam Hussein che se ne restò sprezzante sul patibolo. Come neppure la più algida delle principesse di Francia davanti alla ghigliottina. Incravattato di dura corda al collo, l’uomo di Tikrit, degnò qualche ghigno al boia, si prese il tempo di deglutire il gelo della forca per poi gridare la sua preghiera: “Allah ‘u Akbar”. E fu dunque fatto morto. E, subito dopo, impudicamente fotografato.
Come nel peggiore degli Ade. Per quel morire che non conosciamo più perché gli stessi che fino a ieri stavano a fianco del rais, dunque Sarkozy, Cameron, lo stesso Berlusconi, tutto potranno avere dalla vita fuorché un ferro con cui fare fuoco. La nostra unica arma è, purtroppo, il doppio gioco. I nemici di oggi sono i nostri amici di ieri – amico fu Gheddafi, ancor più amico fu Saddam Hussein – e quando li portiamo alla sbarra, facendone degli imputati, dobbiamo scrivere la loro sentenza di morte con l’inchiostro della menzogna perché è impossibile reggere il ghigno dei nemici. Perché – si sa – i nemici che sanno come morire, poi la sanno sempre troppo lunga su tutto il resto del Grande gioco. Ed è un lusso impossibile quello di stare ad ascoltarli in un’udienza.

Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. L’unica cruda verità della vita è la guerra e solo i nostri nemici sanno creparci dentro. E’ veramente padre e signore di tutte le cose, il conflitto, ma l’impostura è così forte in noi da essere riusciti a muovere guerra alla Libia dandola per procura, lavandocene le mani, mandando avanti gli altri perché a forza di non sapere morire con le armi in pugno, se c’è da sparare, preferiamo dare in appalto la sparatoria. Giusto come un espurgo pozzi neri da affidare a ditta specializzata.

Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. Quando gli eserciti dello zar ebbero ragione del loro più irriducibile nemico, Shamil il Santo – l’imam dei Ceceni, il custode della prima Repubblica islamica nella storia – nel vederselo venire avanti, finalmente sconfitto, non lo legarono a nessun ceppo, a nessuna catena, piuttosto gli fecero gli onori militari per accompagnarlo in un lungo viaggio fino al Palazzo reale dove lo zar, restituendo a Shamil il proprio pugnale, lo accolse quale eroe e lo destinò all’esilio, a Medina, affinché tutta quella guerra, spaventevole, diventasse preghiera e romitaggio.

Come c’erano una volta i nemici, non ce ne saranno più. Ed è per la vergogna di non sapere morire come loro che scacazziamo sui loro cadaveri. Ne facciamo feticcio e se fosse cosa sincera la memoria di ciò che fu, invece che produrre comunicati stampa di trionfo, se solo fossimo in grado di metterci sugli attenti, invece che mettere la morte in mostra, dovremmo concedere loro l’onore delle armi, offrire loro un sudario.

Sempre hanno saputo morire i nemici. E tutti quei corpi, fatti poltiglia dalla macelleria della rappresaglia, nel film della nostra epoca diventano tutti uguali: Benito Mussolini, Che Guevara, Gesù Cristo, Salvatore Giuliano. E con loro, anche i nemici morti ma fatti assenti, tutti uguali: da Osama bin Laden a Rudolph Hess. Fatti fantasmi per dare enfasi al feticcio, come quel Gheddafi armato e disperato che nel suo combattere e urlare, simile a un selvaggio benedetto dal coraggio e dalla rabbiosa generosità, mette a nudo la nostra menzogna.

A ogni pozza di sangue corrisponde l’onta della nostra vergogna e un Pupo che parla a Radio Uno e annunzia “una notizia meravigliosa” e si rallegra di Muammar Gheddafi, morto assassinato, è solo uno che si trova a passare e molla un calcio al morto. Pupo è come quello che sabato scorso, dalle parti di San Giovanni, vede la Madonnina sfasciata appoggiata a un muro e non sapendo che fare le dà un’altra pestata, non si sa mai. Così come il black bloc, anche Pupo, è una comparsa chiamata a raccolta nella montante marea del nostro essere solo canaglie. La signora Lorenza Lei, direttore generale della Rai, dovrebbe cacciarlo lontano dai microfoni della radio di stato uno così ma siccome il nostro vero brodo è la medietà maligna, figurarsi quanto può impressionare l’offesa al morto. Pupo, infatti, è l’eroe perfetto per il peggiore degli Inferi, l’Ade cui destinare quelli che non sanno darsi uno stile nel morire.

Di Pietrangelo Buttafuoco

domenica 16 ottobre 2011

Te la raccomando poi la massa


Non se ne può più di questo odio generale contro la casta dei politici. Un tempo lo condividevo anch’io, ma inveire contro di loro è facile e scontato. Così dopo il lancio delle scarpe Tod’s, mi sono nauseato. Che sono questi linciaggi di massa, senza distinguo? Te la raccomando poi la massa. È peggio della casta, la massa, vorrebbe godere degli stessi privilegi e compiere gli stessi abusi, ma non ne ha le possibilità e allora cova rabbia e invidia. Ma la crisi mondiale non è colpa dei politici, loro semmai non sanno fronteggiarla.

Quando sparano sul mucchio mi coglie il desiderio perverso di elogiare la casta. Anzi auspico la nascita di una vera casta, un corpo separato di élite, che gode di enormi privilegi pari alle loro responsabilità e capacità. Il guaio dei politici è che non sono una casta, una classe eletta, distinta e dirigente, ma un’accozzaglia, mediamente miserabile, simile alla massa.

Nell’attesa di una vera casta propongo una soluzione umanitaria: adottiamo un politico a distanza. Come si fa per i bambini delle favelas o se preferite un paragone disumano, con i bastardini smarriti e i gatti randagi. La preferenza è troppo poco, vogliamo l’adozione. Ci mandino le foto, il peso, l’età e noi ce lo scegliamo.

Non gli faremo mancare le nostre coccole, cibi e tenerezze, lo sproneremo nella sua carriera, lo seguiremo nel suo sviluppo.

Non soldi né mensa ma opere di bene. Aiutiamolo a crescere. Saremo i suoi tutori. Chissà che adottato non venga su un po’ più attento e riconoscente verso i suoi genitori adottivi.

Marcello Veneziani

venerdì 7 ottobre 2011

E' morto Steve Jobs. E' morto un grande uomo, non è morto alcun eroe.


di Francesco Torselli

E' morto Steve Jobs. L'uomo della "mela" e della "i" messa prima di un qualche prodotto informatico. Che Steve Jobs sia stato un grande uomo del nostro tempo è poco, ma sicuro. Anche che Steve Jobs sia stato un grande innovatore, un grande inventore, un "folle visionario" come forse si sarebbe definito lui è un dato di fatto. Ma azzardiamo di più. Steve Jobs è stato per il nostro tempo un qualcosa di molto simile, anche se imparagonabile a causa di quel mezzo millennio circa che sta in mezzo, a quello che Leonardo o Galileo sono stati per le loro epoche.

Steve Jobs è stato l'unico uomo "di mercato" a vivere una doppia dimensione: una terrena, materiale, anzi estremamente terrena e materiale ed una (quasi) spirituale. L'uomo della tecnologia dal volto umano. L'uomo della tecnologia non solo figlia di progetti ed investimenti di denaro, ma anche di una filosofia, la filosofia tutta americana del "self-made man" unita a quella, un po' più tradizionale del "volli, volli, fortissimamente volli".

Steve Jobs ha rappresentato l'icona dello studente modello, che sfrutta le doti di madre natura per emergere dal gruppo, intraprendere una strada in solitario e realizzare un prodotto in grado di competere con i più grandi colossi del mondo dell'informatica e dell'elettronica. Al tempo stesso Steve, ha rappresentato anche un altro tipo di icona, quella di colui che non si piega al richiamo del denaro contante che qualunque colosso avrebbe volentieri sborsato per averlo nelle proprie sale di progettazione, perchè talmente convinto dei propri mezzi che alla fine lo stesso (anzi, molto di più) denaro contante sarebbe arrivato grazie solo ed esclusivamente alle proprie intuizioni.

Steve Jobs è dunque un grande uomo. Un uomo che non ha mai perso la propria dimensione, neppure quando le azioni della sua azienda guadagnavano il 300% da un giorno all'altro. E mentre i suoi apparecchi si diffondevano a macchia d'olio da oriente ad occidente, portando cifre inimmaginabili nei suoi conti in banca, lui trovava comunque il tempo (e l'entusiasmo) per incontrare i neo-laureati e spiegare loro che l'obiettivo di un uomo non deve mai essere quello di diventare il più ricco del proprio cimitero, ma semmai quello di migliorare la vita a chi gli sta attorno.

Steve Jobs è un grande uomo perchè quando la sua azienda sembrava destinata ad essere annientata (come accaduto peraltro a molte altre aziende meno fortunate di quella di Jobs) dal colosso piglia-tutto Intel-Microsoft, egli realizzava spot televisivi riprendendo immagini dal Grande Fratello di Orwell che stava egemonizzando il mondo con la propria dottrina e facendo incarnare alla (ancora) piccola Apple il ruolo della voce fuori dal coro.

Oggi quindi è morto un grande uomo. Un uomo che merita tutto il rispetto possibile ed a cui vanno, doverosamente rivolte un pensiero ed una preghiera. Perchè anche con la sua morte, avvenuta a soli 56 anni, Steve Jobs ha voluto dimostrare di non aver perso la propria umanità di fronte al successo ed al denaro. Perchè di solito i ricchi ed i potenti si credono immortali, mentre lui, che ricco e potente lo era davvero, ha avuto il coraggio di mostrare in pubblico il progredire della sua malattia, rendendo tutti partecipi della sua sofferenza.

Ma oggi non è morto alcun eroe. Sul Web, su Facebook, su Twitter, si rincorrono celebrazioni e frasi che dipingono Steve Jobs come una sorta di ultimo profeta. Come eroe dei nostri tempi. Come una divinità. La "mela" che per un giorno si trasforma in una moderna croce e gli appassionati della tecnologia "made in Cupertino" (tra i quali si annovera chi scrive) diventano una specie di seguaci di una nuova religione.

Steve Jobs non è un eroe. Non ha sacrificato la sua vita ad una causa nobile, per il solo gusto di donarsi. Non ha sfidato la morte per difendere ciò in cui credeva. Non ha salvato popoli interi da devastazioni e massacri. Non ha mutato il corso della storia con le proprie azioni (sicuramente ha mutato quello della tecnologia, dell'informatica e dell'elettronica, ma cosa sono un iPod, un iPad e un iPhone di fronte alla grandezza della storia?). Non ha liberato dalla schiavitù alcuna popolazione, né ha salvato donne e bambini dalle spede di feroci massacratori. Non è morto per la libertà, né per difendere la parola di Dio. Non ha scongiurato guerre, né carestie.

Il mito del "self-made man" non ci appartiene. Lo scienziato che fonda una piccola azienda e riesce a trasformarla col tempo e con le proprie intuizioni in un colosso planetario, non è un'icona valida per un eroe. Non mescoliamo il sacro con il profano. Altrove, al di là dell'oceano forse questo può bastare per identificare un mito, un eroe, un condottiero. Ma non qui. Non da noi. Non nella terra che ha conosciuto le impronte di Alessandro Magno e di Cesare Augusto. Non nella terra della quale ha scritto Dante Alighieri e che ha raffigurato Michelangelo.

E' morto Steve Jobs, ricordiamolo come un novello Marconi, come l'uomo che ha sfidato sì il Grande Fratello dell'informatica, ma che poi ha finito col sostituirlo. Come l'uomo che ha reso più divertenti le nostre giornate e che ha infilato in tutte le nostre tasche almeno un oggettino elettronico che comincia con la "i".

Ma non facciamoci trascinare dalla sua morte verso la morte della nostra identità. La Apple non è una religione, lasciamo adorare la "mela" a chi un vera e propria storia non l'ha mai avuta. Ammiriamo l'uomo, lo scienziato, l'inventore ed ammiriamo quel lato umano che ha conservato fino al suo ultimo giorno di vita.Tributiamogli il giusto ricordo ed il doveroso rispetto, ma non paragoniamolo a chi, noi europei, siamo stati abituati a piangere.

Ma oggi è morto un grande uomo, non un eroe.

Da casaggi.org

giovedì 6 ottobre 2011

Trovati i documenti libici su Ustica


Secondo il resoconto dei media italiani, i documenti riservati trovati negli archivi del servizio segreto libico, dopo la caduta di Tripoli, che sono ora nelle mani di Human Rights Watch, dimostrano ciò che ha provocato l’abbattimento del Dc-9 Itavia sul Mediterraneo, presso l’isola di Ustica, il 27 giugno 1980.

Ottantuno persone a bordo del volo, sulla rotta da Bologna a Palermo, sono morte.

Come si è a lungo sospettato, i documenti confermano che un missile aveva colpito l’aereo, dopo che era stato scambiato per un aereo che trasportava il leader libico Muammar Gheddafi.

Secondo i documenti, due jet francesi all’inizio attaccarono l’aereo, e poi s’impegnarono in un duello con un solitario caccia MiG, che portava le insegne della Jamahiriya, e che si pensava scortasse il colonnello Gheddafi, fino a quando non impattò nella regione montuosa della Sila, nel sud d’Italia. Il colonnello Gheddafi, informato in tempo dell’attacco, riparò a Malta, dove atterrò col suo Tupolev, secondo i documenti.

Sembrerebbe, dalle carte dei servizi segreti trovate, che Gheddafi sia stato informato dai servizi segreti italiani (SISMI), che stava per essere attaccato, e aveva cercato rifugio a Malta.

Le autorità italiane hanno isolato l’area in cui il MiG cadde, e un giornalista e un fotografo, che cercavano di scoprirne la vicenda, al momento, furono arrestati e trattenuti per ore dalla polizia, fino a che non svelarono ciò che avevano documentato. Più tardi, le autorità libiche affermarono che il pilota del MiG era in volo di addestramento, quando avrebbe perso la rotta. Il suo cadavere, che era già stato sepolto, fu riesumato; l’autopsia venne effettuata e il cadavere fu poi rimpatriato in Libia. Pochi giorni dopo, il 7 luglio 1980, una bomba distrusse gli uffici della Libyan Arab Airlines, a Freedom Square, a La Valletta, e ci fu anche un tentativo di incendio doloso dell’Istituto libico di Cultura, a Palace Square, in quel periodo.Secondo un libro del giornalista e storico francese, Henri Weill, la bomba e l’incendio doloso furono opera dei servizi segreti francesi, lo SDECE, come anche un attacco a una nave libica, a Genova. Poi, meno di un mese dopo, il 2 agosto 1980, un’enorme bomba distrusse la maggior parte della stazione ferroviaria di Bologna, e 80 persone furono uccise. La responsabilità dell’attacco terroristico non è mai stata stabilita con certezza. Proprio questa settimana, un tribunale italiano ha ordinato al governo di pagare 100 milioni di euro di danni civili ai parenti delle 81 persone uccise nel disastro aereo del 1980, che tuttora rimane ancora uno dei misteri più duraturi dell’Italia, almeno fino a quando i documenti scoperti questa settimana, saranno studiati a fondo.

Il governo italiano ha dichiarato che avrebbe fatto ricorso contro la decisione del tribunale civile di Palermo, che ritiene i ministeri della difesa e dei trasporti responsabili di aver omesso di garantire la sicurezza del volo. Tra le altre teorie sulle cause dell’incidente, vi era quella di una bomba a bordo o che l’aereo fosse stato accidentalmente preso in mezzo a un duello aereo.

L’avvocato Daniele Osnato, che insieme a un manipolo di avvocati rappresentati i parenti delle 81 vittime, ha detto che la giustizia è stata finalmente fatta. Oltre a determinare che i ministeri competenti non erano riusciti a proteggere il volo, ha detto, il tribunale ha anche concluso che erano colpevoli di aver nascosto la verità e di aver distrutto le prove.

Un’altra teoria sul dogfight aereo, aveva avuto credito dal giudice Rosario Priore, il quale aveva inizialmente accusato dei generali di esserne i responsabili. Il giudice Priore aveva teorizzato che un missile, lanciato da un caccia statunitense o da un altro aereo della NATO, avesse accidentalmente colpito il jet di linea interna italiano, durante il tentativo di abbattere un aereo libico.

Funzionari francesi, statunitensi e della NATO, hanno a lungo negato qualsiasi attività militare nei cieli, quella notte. (ilupidieinstein)

Da italian.irib.ir

martedì 4 ottobre 2011

Quelli che dissero no


Irriducibili, rabbiosi, certamente più coraggiosi che furbi. O almeno non dotati di quello che la gente chiama buonsenso, di quel minimo di opportunismo che aiuta a capire che quando è finita è finita. Fascisti non sempre, almeno non necessariamente. Disposti a sanguinare, ad aver fame a rischiar di finir male invece sì, quasi in ogni circostanza. È questa la descrizione, sommaria, di quei soldati italiani che, durante la Seconda guerra mondiale, essendo prigionieri di inglesi e americani, si rifiutarono di collaborare con i vincitori. Una resistenza passiva, apertamente sancita e garantita dalla convenzione di Ginevra, che molti portarono avanti anche dopo l'otto settembre, quando divenne molto meno chiaro decidere da che parte stare, a quale brandello di Patria lontana aggrapparsi. E, nonostante il fatto che in tale situazione di dubbio disperante si trovarono quasi un milione e mezzo di soldati presi prigionieri durante le molte disfatte del Regio esercito (seicentomila quelli nelle mani di Gran Bretagna e Usa), la storiografia italiana sull'argomento è sempre stata un po' latitante. Figurarsi poi su quelli che fecero la scelta sbagliata e, rinchiusi in campi speciali, tornarono a casa per ultimi. Essi subirono la damnatio memoriae: un Paese che aveva fatto di tutto per essere considerato cobelligerante e che viveva di piano Marshall non aveva alcuna voglia di ricordare coloro che a quella scelta si erano opposti sino all'ultimo.
Ecco che allora la ricostruzione fatta da Arrigo Petacco in Quelli che dissero no. Otto settembre 1943 la scelta degli italiani nei campi di prigionia inglesi e americani (Mondadori, pagg. 170, euro 19, in uscita martedì prossimo) arriva a colmare un vuoto. Lo fa in maniera non accademica, il racconto di Petacco ha ovviamente piglio giornalistico, e senza pretese di esaustività: gli italiani vennero sparpagliati in territori lontanissimi e subirono trattamenti molto diversificati. Il quadro che ne esce evidenzia però delle caratteristiche comuni. Da un lato la sbrigatività degli alleati che classificarono tutti coloro che rifiutarono di cooperare come fascisti: toccò anche al socialista Gaetano Tumiati (poi giornalista di vaglia e vincitore di un Premio Campiello) rinchiuso nel campo di prigionia di Hereford in Texas. E questa sbrigatività si trasformava rapidamente in sospensione delle garanzie previste per i militari. A Hereford i renitenti alla collaborazione venivano affamati e picchiati a colpi di mazza da baseball, in India ci furono ufficiali falciati a colpi di mitra solo per aver intonato inni fascisti.
Dall'altro la scarsissima attenzione dei comandi italiani per le proprie truppe imprigionate o in generale per le condizioni dei propri concittadini (ammettendo di non voler considerare i militi della Rsi come militari). Al momento dell'armistizio dell'otto settembre Badoglio e lo stato maggiore non negoziarono alcuna clausola relativa ai prigionieri. Non bastasse, anche in seguito, secondo Petacco, si guardarono bene dall'emanare ordini e disposizioni chiare. Schiacciati tra questi due diversi ingranaggi restarono moltissimi prigionieri italiani. Dovettero scegliere da soli, con le poche, frammentarie e spesso false informazioni che avevano. I più decisero di diventare «Coman» collaboratori, spesso creando situazioni al limite del ridicolo. Nel campo kenyota di Nanyuki il colonnello Lo Bello che stava invitando tutti i soldati a giurare fedeltà al Re e a rinnegare Mussolini gridò con entusiasmo «Viva il Re» ma nella foga del momento lo fece a braccio teso, con stentoreo saluto romano. La minoranza scelse la condizione di «no-coman». Tra questi vi furono fascisti indiavolati e vendicativi che redigevano liste nere per farla pagare a chi aveva accettato l'ineluttabilità della sconfitta; persone come lo scrittore Giuseppe Berto o lo scultore Alberto Burri, che non volevano barattare la libertà con l'incoerenza; militari che credevano nel detto molto anglosassone «Right or wrong, my country».
Pagarono cara quella decisione, le atrocità peggiori le subirono a colpi di scudiscio - maneggiato da altri italiani - i prigionieri del campo kenyota di Burguret. Pagarono per la dimostrazione di carattere più che per l'ideologia. Perch´ in fondo tutto si può riassumere nel giudizio, sbagliato secondo gli storici ma personale e sentitissimo, di un sommergibilista che venne colto dall'otto settembre in pieno oceano Pacifico e decise poi di continuare a combattere con i giapponesi: «Combattevo da due anni a fianco dei tedeschi... Poi dopo 56 giorni per mare arrivo in Giappone e mi dicono: “È tutto cambiato, ora sono i tedeschi i nostri nemici e anche i giapponesi...”. No, no. Io non ho mai tradito nessuno! Sono loro che hanno tradito me!».

Di Matteo Sacchi
Da ilgiornale.it